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GAETANO DA LENTINI | L’ambasciatore dei randagi

Creato il 31 marzo 2014 da Amedit Magazine @Amedit_Sicilia

gaetano_da_lentini.1di Giuseppe Maggiore

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Certe vedute di città raffigurate in un dipinto o in una foto sono facilmente riconoscibili a partire da un dettaglio: la guglia di un campanile, una torre, delle cinte murarie, il profilo di una grande chiesa o di un edificio particolarmente importante (come possono esserlo la Cupola del Brunelleschi per Firenze, la Basilica Palladiana per Vicenza o la Mole Antonelliana per Torino) connotano e danno un nome a un insieme di costruzioni per il resto indistinto. In altri casi è il panorama circostante a fornire l’indizio, la presenza ad esempio di un cono vulcanico (come l’Etna per Catania o il Vesuvio – con il Maschio Angioino in primo piano – per Napoli). Ci sono altri dettagli, poi, che connotano un dato luogo, e che in molti casi sfuggono all’attenzione del visitatore. Dettagli che sono invece familiari agli abitanti del posto. Vogliamo qui riferirci a certi personaggi che vivono in determinati luoghi, figure particolari che si distinguono dal resto della popolazione per un dato aspetto, stile di vita o comportamento. Dalla grande metropoli al più piccolo borgo non esiste luogo in cui non ve ne sia almeno uno, noto a tutti e da tutti immediatamente riconosciuto pur appena intravisto con la coda dell’occhio in mezzo a tanta gente. Può trattarsi di un uomo o di una donna di cui si sconoscono le vicende personali, di cui s’ignora il cognome, ma il cui nome è noto a tutti; una presenza che incontri ovunque, che perdi di vista e poi ritrovi magari poco dopo in un altro posto. La sua figura sembra rassomigliare a un’installazione vivente perennemente in movimento, e a te sfugge il fine di quel suo tanto girovagare. Personaggi che nell’accezione comune vengono etichettati come “strani” o “pazzi”, figure bizzarre che posseggono una forte dote di caratterizzazione per nulla ricercata o voluta e il più delle volte involontaria, nel vestire, nei movimenti, in determinati tic o nel modo di esprimersi. A Vicenza un anziano uomo curvo su se stesso si aggira per la città, sempre a piedi, per vie, piazze, centri commerciali e luoghi pubblici…ovunque. Indossa abiti consumati dal tempo quanto coloratissimi e stravaganti (gilè e camicie dalle ricche fantasie e dai toni molto accesi, foulard altrettanto colorati e tutta una serie di monili appesi qua e là); ha in testa sempre qualche cappello (il più delle volte stile cow-boy) sotto il quale indossa una parrucca liscia color nero corvino con codino; ai piedi calza dei vistosi stivali a punta che di volta in volta dipinge con un colore diverso (si va dal viola al verde brillante al giallo). Persona affabile, discreta e docile con tutti, di tanto in tanto fa dono di un fiore a qualche donna che gli regala un sorriso e un saluto. Per tutti è Giuseppe. A Caltagirone un uomo la cui età era imprecisata, lo si è visto per decenni sempre in giro con uno stereo portatile acceso che teneva appoggiato sulla spalla; ascoltava, cantava, rideva sempre, e vestiva sempre allo stesso modo,
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indossando una giacca malconcia e un cappellino stile ferroviere. La sua vita è trascorsa così, opponendo la musica emessa dalla sua radio portatile al tam-tam della vita quotidiana con tutti i suoi chiassi e rombi di motori. Per tutti era Giacomino. A Palagonia (CT), viveva un uomo solitario che andava sempre in giro con un look tutto suo, anche lui con la sua giacca malconcia, ma con ai piedi scarponi da campagna impregnati di terra. Lo si riconosceva dal suo cappello, la cui visiera teneva abbassata fino a nascondergli quasi del tutto il viso; sembrava un uomo senza volto, o che avesse deciso di rinunciare per sempre ad averne uno. La sua faccia potevi vederla solo grazie alla fototessera che si era appuntata sulla cupola del cappello. La fototessera era la sua esclusiva affermazione identitaria. Di lui si diceva che da giovane era stato un uomo molto bello ed estremamente intelligente, uscito poi pazzo a seguito di una delusione d’amore. La sua “pazzia” lo fece uscire dall’indistinta ordinarietà per farlo rinascere come personaggio pubblico a tutti noto per le sue stravaganze. Un giorno si era industriato a mettere su un’officina per la riparazione degli aeroplani (perlomeno così recitava la rudimentale insegna da lui approntata e affissa davanti casa) se non fosse che Palagonia è un piccolo centro dell’entroterra siciliano che vive esclusivamente di agricoltura e il più vicino aeroporto (quello di Catania) dista a circa 40 Km di distanza; un’altra sua impresa fu l’abbattimento di un’edicola votiva dedicata alla Patrona del paese, eretta davanti all’eremo rupestre di Santa Febronia, perché convinto che sotto questa vi fosse nascosto un qualche tesoro (alcuni dicono cercasse il Sacro Graal). Il suo nome era Gaetano, per tutti era Tanu u pazzu. Di personaggi così, dicevamo, chiunque può citarne almeno uno riferito alla propria comunità. Si tratta di esistenze che sembrano vivere mondi paralleli e inaccessibili; figure errabonde che vivono ai margini della società, o che da questa sono riusciti ad affrancarsi, travalicandone ogni limite e prescrizione, col loro sapersi porre oltre, fuori dal convenzionale, fuori da ogni cliché. Vivono una condizione di beatitudine nel loro essersi sottratti al giudizio – e al pregiudizio – cui sono soggette le persone cosiddette “normali”; la loro conclamata “follia” gli ha ormai fornito l’alibi perfetto, il lasciapassare a ogni loro atto, una sorta di zona franca in cui ormai tutto gli è concesso e a cui nessuno ormai fa più caso, poiché da loro non ci si aspetta null’altro che la loro “follia”, appunto. Queste “vite randagie” fanno parte del paesaggio, della scenografia cittadina, la loro presenza è per noi garanzia di essere a casa nostra, nella città in cui siamo cresciuti, poiché loro ci son sempre stati, li abbiamo visti fin da quando eravamo bambini, certificano di trovarci nel nostro borgo-città non meno di un dato monumento che si trova qui e qui soltanto. Ogni luogo ha il suo portatore sano di “follia” unico e irripetibile. Da reietti della società a caratterizzazioni viventi di un dato luogo. Gli stessi loro sembianti, divenuti ormai figure familiari, sono immagini che quasi impercettibilmente hanno fatto irruzione nella nostra memoria, per restarvi impresse indelebilmente; hanno dilatato i nostri orizzonti immaginifici verso realtà esistenziali altre portandoci talvolta a considerare forme di “follia” diverse – forse più originali, più creative e meno innocue – di quelle cui siamo avvezzi nella cosiddetta “normalità”. Questi volti, questi profili che si collocano a metà tra la metafora e l’allegoria, meriterebbero di figurare nella rappresentazione di un paesaggio cittadino, come segno di una cittadinanza variopinta, inclusiva e onnicomprensiva.

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Gaetano da Lentini – Un’altra storia emblematica è quella che ci giunge da Lentini, cittadina in provincia di Siracusa. In questa città di antiche origini e di un illustre passato che ha regalato all’umanità non pochi personaggi importanti (si pensi al filosofo e retore Gorgia, considerato uno dei maggiori sofisti; al medico Erodico, autore di varie opere del Corpus Hippocraticum, al poeta e notaio Jacopone da Lentini, ideatore del sonetto; fino al filosofo, poeta e paroliere Manlio Sgalambro recentemente scomparso, tanto per citarne alcuni), un giorno imprecisato di alcuni anni fa fece la sua comparsa Gaetano. Da quel giorno, e per oltre dieci anni, i cittadini di Lentini hanno condiviso con questo singolare personaggio tutti i momenti salienti della loro vita comunitaria. Gaetano lo si è visto tutti i giorni nei più disparati luoghi della città; le sue giornate erano incredibilmente piene e ricche di compiti da assolvere: tutte le mattine si piazzava agli ingressi delle scuole per bloccare gli automobilisti alle strisce pedonali e consentire il passaggio dei giovani studenti, che quindi accompagnava con gesti d’affetto tutti suoi; compiva, indisturbato, il giro di sopralluoghi presso gli uffici comunali, ove per diritto acquisito aveva ormai libero accesso (probabilmente per accertarsi che tutto procedesse regolarmente), e seguiva le vicende politiche cittadine assistendo ai Consigli Comunali; si premurava a condividere gioie e dolori dei suoi concittadini prendendo parte ai matrimoni e ai funerali; presenziava a tutte le manifestazioni pubbliche, mostrando particolare devozione in occasione della festa del Santo Patrono Alfio, in occasione della quale, oltre a seguire la messa in duomo, si disponeva in cima alla processione al fianco delle autorità cittadine; frequentemente si piazzava davanti agli sportelli del bancomat per vigilare sulla sicurezza degli utenti; si concedeva quindi anche qualche momento di svago, come l’andare la domenica allo stadio per assistere dalla tribuna A agli incontri di calcio della squadra locale; spesso stazionava in Piazza dei Sofisti e alla stazione per osservare il viavai dei viaggiatori, e il martedì prendeva l’autobus di linea per recarsi al mercato del vicino paese di Carlentini. Aveva scelto come sua dimora stabile il Comando dei Vigili Urbani, dove trovava sempre un pasto e il riparo dal freddo invernale, qui veniva coccolato e accudito dai vigili, che lo consideravano ormai un po’ come una sorta di collega-mascotte. Un giorno Gaetano scomparve, non lo si vide più in giro. Tutti cominciarono a chiedersi il perché, dove fosse finito; alcuni si misero alla sua ricerca, una strana angoscia si fece largo negli animi dei cittadini lentinesi. Alla fine il suo corpo fu ritrovato nei pressi di un centro commerciale, il 28 gennaio 2010, e fatto cremare dall’animalista Enzo Caruso. Dopo una vita lunga e intensa, ormai vecchio e privo di forze, Gaetano si era spento per cause naturali, il 20 gennaio, proprio nel giorno in cui si venera San Sebastiano, Patrono dei Vigili Urbani. Il triste evento gettò nello sconforto l’intera città; apparvero i necrologi affissi sui muri e anche il sindaco si sentì in dovere di scrivere per l’occasione una lettera aperta di commiato.

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Ma chi era realmente Gaetano? Nessuno dei suoi concittadini lo saprebbe dire. Apparso d’improvviso dal nulla, per tutti era ormai un membro della comunità, un cittadino modello, una presenza irrinunciabile a ogni evento importante, privato o collettivo che fosse; una presenza ormai di valenza istituzionale. Molti lo consideravano un vero e proprio angelo che vegliava sulla città, e si sentivano da lui protetti e voluti d’un bene totale quanto disinteressato. Gaetano era un cane randagio, con occhi melanconici color miele e un folto manto peloso a chiazze marrone-nero. Quel lontano giorno in cui fece la sua apparizione, era stato soccorso da delle persone di buon cuore, dopo che era stato vittima di atroci maltrattamenti in cui gli erano state strappate persino le orecchie da vili mani disumane. Forse quel gesto ormai insperato di bontà gli aveva fatto riacquistare la fiducia nell’uomo, tanto da aver desiderato ardentemente in cuor suo di entrare a far parte a pieno titolo della società umana, di sentirsi parte di quella comunità in cui, sì, aveva conosciuto l’estrema crudeltà, ma anche un grande slancio di amore e di compassione. Quel ruolo di membro effettivo della comunità se l’è conquistato, gesto dopo gesto, e lo ha espletato nel migliore dei modi, fornendo ai propri concittadini un chiaro esempio di cittadinanza attiva, di grande spirito comunitario, di fratellanza e solidarietà. Nel suo errare per ogni angolo della città, portava fiero al collo un collarino con appesa la medaglietta che il Comune gli aveva assegnato come cane di quartiere e “Ambasciatore dei cani randagi”, distintivo che portava con quella stessa fierezza con cui indossava la pettorina fornitagli dal Comando dei Vigili Urbani per le grandi occasioni, come la festa patronale. In quella società umana fatta più di parole che di gesti, lui si era guadagnato la stima di tutti, si era ritagliato un proprio autorevole ruolo attraverso la concretezza delle sue azioni da perfetto cittadino modello. È stata questa la sua lezione, pronunciata con la potenza inequivocabile della sua “grammatica” fatta di sguardi, di versi appena sussurrati, di carezzevoli leccatine e strusciatine, di esultanti abbaiate augurali come era solito fare in occasione dei lieti eventi nuziali. Non dunque un semplice cane pariah, ossia un cane di villaggio, non un comune animale solitario e errabondo, ma un vero e proprio cittadino che viveva tra la gente e partecipava attivamente alla vita comunitaria. Compagno di scuola, vigile urbano, cerimoniere, tanti i ruoli che Gaetano ha rivestito durante la sua azione sociale spesa a Lentini. Un simile personaggio non poteva non lasciare un vuoto incolmabile presso la città che ne ha beneficiato per così tanto tempo. Da qui la decisione plebiscitaria di erigere un monumento alla sua memoria, qualcosa che potesse rappresentarlo e farlo sentire sempre e comunque presente tra la sua gente. Per questo progetto si è mobilitata l’intera cittadinanza, coordinata dalla locale associazione animalista
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P.A.C.E., e a distanza di due anni, nel maggio 2012, il monumento ha visto finalmente la luce grazie alle numerose donazioni dei cittadini. Il luogo prescelto, Piazza Taormina, ha visto per l’occasione numerosi artigiani e operai locali offrire gratuitamente la loro opera per renderlo più accogliente e degno di ospitare il monumento. La statua in bronzo che riproduce le fattezze di Gaetano – il cui calco in creta è stato offerto dall’artista Luana Pellegrini di Roma – troneggia su un basamento al quale sono state apposte delle targhe commemorative, varie dediche e i nomi dei donatori; l’inaugurazione è stata salutata da una folla di persone entusiaste che in quella scultura hanno rivisto il loro amato Gaetano, simbolo del lato migliore che una città come Lentini ha saputo esprimere; “presenza” dalla forte valenza iconica, che ha saputo caratterizzare il paesaggio urbano in cui è vissuto fino a divenirne simbolo. Pur nella diversità di risvolti sul piano sociale, la sua storia, insieme a quella di altri personaggi singolari dalla vita randagia, offre molteplici spunti di riflessione. Storie di uomini e di cani come queste albergano dappertutto, e ovunque rappresentano un’uguale sfida all’indifferenza, ai sentimenti di derisione, di scherno, quando non di vera e propria crudeltà di cui spesso sono permeate. Da queste storie dovrebbe affiorare un comune sentimento di tenerezza e di accoglienza verso la vita, qualunque forma di vita. Gaetano da Lentini non è soltanto l’ambasciatore dei cani randagi, ma di tutte quelle esistenze randagie, umane e non, che popolano le nostre città, che ci vivono accanto, spesso ignorate. Penseremo a lui ogniqualvolta saremo spinti a esprimere un giudizio di valore tra l’uomo e questo suo fedele compagno a quattro zampe, che da millenni ne condivide l’habitat, gli umori, le vicende e le pazzie.  Le più belle parole che siano mai state scritte per descrivere l’antico legame tra uomini e cani sono indubbiamente quelle usate dall’avvocato statunitense George Graham Vest, nella sua splendida orazione Eulogy on the dog, pronunciata nel 1870 come arringa finale davanti al tribunale della Contea di Johnson (Warrensburg).  Ci piace concludere con questa orazione, dedicandola a tutte quelle vite randagie che, su due gambe o su quattro zampe, compiono il loro viaggio in questo mondo:

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«Signori della giuria, il migliore amico che un uomo abbia a questo mondo può rivoltarsi contro di lui e diventargli nemico. Il figlio e la figlia che ha allevato con cura amorevole possono rivelarsi ingrati. Coloro che ci sono più vicini e più cari, ai quali affidiamo la nostra felicità e il nostro buon nome, possono tradire la loro fede. Il denaro si può perdere, e ci sfugge di mano proprio quando ne abbiamo più bisogno. La reputazione di un uomo può essere sacrificata in un momento di sconsideratezza. Le persone che sono inclini a gettarsi in ginocchio per ossequiarci quando il successo ci arride possono essere le prime a lanciare il sasso della malizia, quando il fallimento aleggia sulla nostra testa come una nube temporalesca. Il solo amico del tutto privo di egoismo che un uomo possa avere in questo mondo egoista, l’unico che non lo abbandona mai, l’unico che non si rivela mai ingrato o sleale è il suo cane. Signori della giuria, il cane resta accanto al padrone nella prosperità e nella povertà, nella salute e nella malattia. Pur di stare al suo fianco, dorme sul terreno gelido, quando soffiano i venti invernali e cade la neve. Bacia la mano che non ha cibo da offrirgli, lecca le ferite e le piaghe causate dallo scontro con la rudezza del mondo. Veglia sul sonno di un povero come se fosse un principe. Quando tutti gli altri amici si allontanano, lui resta. Quando le ricchezze prendono il volo e la reputazione s’infrange, è altrettanto costante nel suo amore come il sole nel suo percorso nel cielo. Se la sorte spinge il padrone a vagare nel mondo come un reietto, senza amici e senza una casa, il cane fedele non chiede altro privilegio che poterlo accompagnare per proteggerlo dal pericolo e lottare contro i suoi nemici, e quando arriva la scena finale e la morte stringe nel suo abbraccio il padrone e il suo corpo viene deposto nella terra fredda, non importa se tutti gli altri amici lo accompagneranno; lì, presso la tomba, ci sarà il nobile cane, con la testa fra le zampe e gli occhi mesti, ma aperti in segno di vigilanza, fedele e sincero anche nella morte.»

Giuseppe Maggiore

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AMEDIT MAGAZINE, n. 18 – Marzo 2014. Cover “Senex” by Iano

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