Torna in libreria Andrea Vitali, «scrittore da un milione di copie», complimento che l’autore ha meritato sul campo e che D’Orrico e colleghi gli attribuiscono sempre volentieri. Certo, D’Orrico riesce anche a fare di meglio, coniando, ad esempio, la definizione — forse un tantino sbrigativa — di «Camilleri del nord». Non so dirvi se lo scrittore di Vigàta abbia apprezzato il paragone, probabilmente l’entusiasmo di D’Orrico è stato tacitamente smorzato con una sbuffata di sigaro.
Antonio D’Orrico ha una vera passione per Vitali, ma ce l’ha anche per Saviano, Piperno e Faletti; comunque, sarebbe poco carino costringerlo al gioco della torre: a quel punto, chissà, magari deciderebbe per un tuffo di sotto. Eppure Vitali, davvero, deve aver rapito il cuore al critico letterario del Corrierone. Ce lo racconta Giuseppe Iannozzi, che su D’Orrico ha sempre molto da dire: «I romanzi di Andrea Vitali, sono una rarità, rappresentano campioni dell’antica arte del racconto italiano» così li presenta D’Orrico e forse ha fatto sorridere molti lettori. In tanti, infatti ricordano la sperticata lode che il critico ha rivolto a Faletti, «il più grande scrittore italiano vivente»... e che Dio ce lo conservi a lungo! Ed è ancora Iannozzi a tenere il conto degli ossequi, immancabili, di D’Orrico a Vitali: per Olive comprese (Garzanti, 2006) dipinse l’autore quale «medico scrittore che onoro da tempo come uno dei migliori narratori italiani». Ma un gran bene disse pure de La Signorina Tecla Manzi (Garzanti, 2004), «È tempo che il grande pubblico scopra l’estrema e godibilissima bravura di Andrea Vitali». Così, poi, per Il procuratore (Garzanti, 2006), «Andrea Vitali è ogni volta più bravo. Lavora come un orologiaio su meccanismi infinitesimali. Con mano fermissima». Tanto da instillare il dubbio, in Iannozzi, che «Andrea Vitali e Antonio D’Orrico viaggino mano nella mano: se non c’è il calcio d’avvio del critico D’Orrico, Vitali non parte da sé».
In realtà, per quanto gli applausi convinti di Antonio D’Orrico riescano sempre a strapparmi una battuta, a mio avviso Andrea Vitali è davvero un grande narratore, ma anche, come l’ha definito Gian Paolo Serino, «un serial writer da beghine». In effetti, pure in Galeotto fu il collier (Garzanti, 2012) ritroviamo la stessa location — Bellano — e gli stessi guai di paese. Del resto, chi legge Vitali lo fa per ritrovare la nuova puntata della telenovela bellanese, coi drammi familiari e ridanciani di uno scorcio di mondo in cui convivono donne bellissime e sceme, donne bruttissime ma “parenti di”, uomini che cercano di sbarcare il lunario, titolati e carabinieri. Uno sputo d’universo dove non manca niente, succede lì e a Cabot Cove, con Vitali e con La signora in giallo.
Stavolta, l’innesco della vicenda sta nel ritrovamento d’antiche monete nell’edificio delle ex scuole di Bellano. Qui, Lidio Cerevelli — figlio mammome di Lirica, astiosa vedova che manda avanti la ditta del marito e la propria gastrite con altrettanta abnegazione — entra con poca convinzione per fare un sopralluogo. Ne uscirà un uomo diverso, disposto a tutto pur di fare grana con quell’oro e di fuggire in Svizzera con Helga, la sua «svizzerotta», di cui ha apprezzato le carni, perdendoci la testa. Ma siamo a Bellano, sono gli anni ’30 e mamma Lirica non ha alcuna intenzione d’imparentarsi così malamente:il piano di Lidio metterà in moto avvenimenti imprevedibili e tanti comprimari, forse troppi.
Già, il lettore di questo libro viene ben presto messo a dura prova: ricordarsi di tutti i personaggi diventa un dramma. Siete mai stati al matrimonio di un lontano cugino dove avete ritrovato parenti per sette generazioni? Ecco, in Galeotto fu il collier succede proprio questo: o fingete di riconoscerli, o chiedete a tutti nome e cognome, rischiando una pessima figura.
A salvarci, nel caso di Vitali, sono le generalità davvero ben studiate: metti un Maccadò, un Mannu e un Cassamagna e si sente a naso che si sta parlando di carabinieri. E cosa dire dell’Olghina? Il nome va da sé: «Una cretina senza pari l’Olghina, un’oca giuliva, una cascata, una valanga, un vulcano di parole e risate» (pagina 36), sposata al professor Cerretti, e a lui l’epiteto non glielo si leva mai. L’Olghina, poi, fa da contraltare a Eufemia, nipote del marito, una bruttezza che si porta in dote «bozze frontali, sporgenti, che sembravano fare ombra agli occhi, e i capelli stopposi di un colore bastardo tra il rame e il carota», insomma una povera figliola inguardabile. Certamente non il tipo che mette in moto i bollori di Beppe Canizza, segretario della sezione del Partito e fervente sostenitore del «credere, obbedire e trombare», uomo a cui va il merito d’aver coniato il motto «El büs l’è büs». (Pagina 79).
Questo ci porta a un’altra pecca, roba da poco, sia chiaro, ma di certo i lettori di lunga data l’hanno notata. Il romanzo di Vitali non disdegna il soft pecoreccio e il lessico grasso. Per carità, niente di terribile, ma so per certo che la mamma di un’amica ha storto il naso. Abituata ai toni lievi delle avventure precedenti, ha sbuffato sentendo Canizza uscirsene più volte con un «freddo troia», che, però, rende bene il meteo della giornata in questione. Anche i carabinieri di Bellano ci vanno giù alla buona, ma fa parte della caratterizzazione, datemi retta. Se poi, come me, siete fan della saga di Hap & Leonard di Joe R. Lansdale, certi problemi certamente non vi toccano. Sia chiaro, Vitali non è Lansdale e Bellano non è LaBorde ed è inutile prendersela con Lirica, se si lascia sfuggire soltanto un moderato «... quella puttana di una svizzerotta!» (a pagina 333), dopo essersi resa conto che la tresca tra il figlio e Helga non si è sopita dopo le sue rimostranze.
Caratterizzazione dei personaggi, capitoli brevi, un giallo esangue — non ci sono morti — e la vita di paese snocciolata nelle sue più risibili caratteristiche, corna e piccole truffe, parentele e fascismo all’acqua di rose: ecco i tratti salienti del microcosmo che Vitali ha piazzato a Bellano.
Galeotto fu il collier non è il migliore della serie, ma nemmeno il peggiore, premio che, a mio parere, va a Pianoforte vendesi (Garzanti, 2009).
Andrea Vitali si dimostra sempre e comunque «un talentuosissimo scrittore» — così lo definisce Massimo Onofri —, ma ai suoi lettori va dato il merito di chiudere un occhio all’idea che a Bellano capiti davvero di tutto.