Gantz, ovvero una Demonizzazione della Serialità

Creato il 27 settembre 2013 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Mario Turco 27 settembre 2013

Continuo a pensare che la serialità televisiva sia incostituzionalmente deficitaria per poter mai creare un’opera che superi la medietà artistica. Sin dal suo esordio e ancor di più con la fortuna che ha avuto negli ultimi dieci anni (da quando più che una crisi del cinema tout court c’è un’ipertrofia transmediale che affloscia l’ormai poco redditizio cinema di genere), essa ha cercato di soddisfare desideri dello spettatore difficilmente esaudibili in toto. A partire dal rapporto tra cielo (qualità) e terra (monetizzazione), la serialità si trova infatti sotto l’effetto contemporaneo di spinte tendenzialmente centrifughe piuttosto che centripete. Contraddizioni in termini, se vogliamo, che nemmeno nei casi più alti riescono a scomparire come invece accad(d)e nel cinema. Si prenda il caso di studio più famoso del genere: Twin Peaks. La seconda serie è notoriamente più sfilacciata della prima ma nemmeno durante quella maggiormente controllata da Lynch mancano momenti di impasse. Come ha detto Michel Platini: «Anche Einstein, intervistato tutti i giorni, farebbe la figura del cretino». O, sviluppando l’intuizione dell’ex giocatore francese, anche l’artista che deve riempire spazi nel minor tempo possibile e guardando inevitabilmente ai gusti del pubblico può scivolare nell’addomesticamento del suo talento. Tutto questo viene ricalcato con la china dei manga nell’arcipelago giapponese, dove il target giovanile di riferimento gioca un ruolo preponderante nella definizione di una serie. Un caso su tutti che valga come corollario a questa tesi. Nel 2004 si decise di dare una versione animata al manga seinen Gantz di Hiroya Oku, primatista di vendite in quegli anni. Lo studio GONZO si incaricò della trasposizione quando il fumetto era in corso di pubblicazione e quindi lo sviluppo della sua storia era ancora in divenire. Pratica, questa, detestabile e accomunabile nella sua specificità a quella hollywoodiana dei remake, di cui mutua l’assunto economico e da cui deriva, qui come lì, l’inevitabile standardizzazione. Lo studio isolò il segmento narrativo più fecondo e cioè la comparsa della sfera Gantz nella vita-morte di Kurono e le prime missioni che assegna a questo studente protagonista del manga.

L’operazione era potenzialmente foriera di buoni risultati: si potevano condensare in una serie breve gli ottimi spunti del fumetto originale che Oku aveva la tendenza a diluire. La fretta di uscire sugli schermi TV ha però nuociuto a questa possibilità. Cominciamo, per esigenze scritturali, dai pregi di questo prodotto di casa GONZO. La sceneggiatura, come anticipato, coglie con acutezza lo spirito dell’opera di Oku, che gli ha fatto arridere critici e fan sin dalla sua comparsa nella celebre rivista Weekly Young Jump. Ne conserva intatti gli elementi principali: la componente splatter, la visione cinica della società, il credibile ritratto del Giappone contemporaneo delineato attraverso ritratti sociologici finalmente crudi. Ciò è raggiunto attraverso lo svisceramento sullo schermo di tutta la sgradevolezza del reale e di temi tabù per la benpensante morale di massa quali il suicidio, la violenza giovanile, i tentati stupri che Kishimoto subisce a causa della sua procacità. La serie ha soprattutto il merito di non avventurarsi nella ricerca di scioglimento dei misteri sottesi alla comparsa, alla funzione e al modus operandi della sfera omonima. In effetti sta proprio lì la fortuna di un manga che sta per terminare dopo 13 anni di pubblicazione e che ha saputo tenere avvolta per anni da una patina di irresoluzione narrativa il grande impianto fantascientifico su cui si basava.

L’anime allora decide di giocare sul velluto lasciando che sia l’autore cartaceo a tirare le fila e a prendersi gli strali dei fan delusi dall’approssimazione della soluzione. Sullo schermo, invece, assistiamo a una riuscita sequela di colpi di scena e alla morte di svariati protagonisti, che riesce al medesimo tempo a confondere lo spettatore e a galvanizzare la sua sete di sangue. Amputazioni, squarci, decollazioni: a venire mutilati sono i corpi e con essi le convenzionali aspettative del pubblico. Dai bambini moccicosi alle nonne compassionevoli, su su fino alla mascotte cinofila e al deuteragonista, la salvezza forse (la Convenzione di Ginevra dovrebbe vietare la tortura dei finali aperti e le associazioni di categoria dovrebbero espellere gli scrittori che vi ricorrono) spetta solo a Kurono. Quest’ultima considerazione mi permette l’aggancio al pensiero principale di quest’articolo. La volontà di concludere la serie non rendeva necessario un finale così pigro e furbo. Ormai demiurghi del mondo Gantz, gli animatori avrebbero potuto tentare una strada opposta o quantomeno più coraggiosa. L’anime difatti ha traslato passivamente la storia del manga omonimo, non filtrandola dai suoi eccessi. Una maggiore riflessione in fase di scrittura avrebbe ad esempio potuto rendere la componente ecchi, se proprio si voleva lasciarla, maggiormente funzionale.

Invece, si è scelto di seguire l’atteggiamento ondivago dell’autore, che passa da una prima fase di nudi gratuiti e insistiti (le esagerate, numericamente parlando, fregole adolescenziali di Kurono verso Kishimoto), a un più maturo inserimento nell’arco stesso degli eventi (mi riferisco alla scena di sesso tra lo stesso Kurono e Sei Sakuraoka che complicava positivamente la tela del possibile quadrilatero amoroso). Alla stessa maniera la necessità del dover riempire 26 puntate ha fatto sì che dopo la prima esplosiva missione la componente mistery venga dilapidata in tre/quattro puntate di noia assoluta, con spunti che rimangano inevasi nel prosieguo (i teppisti, la copia di Kei). C’è da riscontrare perfino il fastidioso difetto del cambiamento in corso del character design, come se ci trovassimo in una lunga serie con diverse squadre di disegnatori (Dragon Ball e Naruto per intenderci). In aggiunta a questi difetti di struttura Gantz fa un uso smodato della computer grafica, in ottemperanza al genere fantascientifico di cui si occupa e alla tecnica di disegno del mangaka. La resa dei fondali è però piatta, incolore, dozzinale, confrontata soprattutto con la definizione dei volti dei protagonisti. A cosa serve una telecamera veloce e capace di spaziare tridimensionalmente se nelle scene d’azione si riesce a malapena a scorgere qualche retta digitale sullo sfondo? Dopo questa demonizzazione della serialità accetto comunque confutazioni che possano farmi ricredere.


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