Giuseppe Garibaldi
1. Kalos kai agathòs
Come dicevano gli antichi greci, Kalòs kai agathòs, ciò che è bello e buono. La fusione perfetta dell’estetica e dell’etica che è l’ideale requisito di un eroe, di un modello che da quella lontana definizione greca non ha mai smesso di esercitare fascino ed ammaliare le più diverse società.
Sarete forse sorpresi nello scoprire che un giorno anche i sogni delle teenagers americane potranno essere di un certo interesse storico, così come sono stati folklore dell’ormai lontanissimo XX secolo i principi azzurri scaturiti dai lungometraggi animati di Walt Disney, ed ancora un secolo prima dai collage letterari dei fratelli Grimm. Un po’ come il primo kouros[1] degno di nota, Achille, che dalle pagine dell’epica classica ed a migliaia di anni di distanza non cessa di proporsi come ideale macho man.
Già, la storia non è solo fatti[2] o cifre e cavillosi trattati redatti da burocrati dai nomi impronunciabili: la storia è anche Geistesgeschichte, storia dello spirito, della cultura alta e bassa di una società; storia che ha come oggetto le passioni, i luoghi comuni, le pratiche sociali, i costumi. Questa branca delle scienze storiche, relativamente recente, si è già ramificata in più specifici canali: chi si interessa del discorso politico, chi della dimensione folkloristica, chi della spiritualità; tutti hanno in comune l’obiettivo di mettere in relazione le idee con la realtà socio-politica. Per capire questo rapporto non basta completare il mosaico delle relazioni internazionali (sfida di per sé ardua), ma serve analizzare il linguaggio dei dispacci, così come quello delle omelie domenicali, la filosofia morale soggiacente un romanzo e la capillarità di diffusione di un coevo[3].
La concezione di “eroe” coniata da una determinata società entra pertanto a pieno titolo nell’alveo dell’interesse storico. Achille, Re Artù, Tarzan[4]… sono riflessi dei gusti, delle culture che li hanno prodotti e che attribuirono le loro qualità ideali ai propri leader naturali, creando curiose dinamiche a cavallo fra fantasia e realtà.
2. In che modo il mondo romantico ha inteso il kalos kai agathòs?
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Chi era l’Eroe dell’Italia risorgimentale?
Se l’epoca di interesse è il “Lungo Ottocento”[5], al cui interno cade il Risorgimento italiano, allora siamo fortunati dal momento che il XIX fu un secolo letteralmente costellato da miti, ovvero dagli ideali dello spirito romantico.
Avete presente Hercules, il film d’animazione Disney del 1997? Bene, dal primo canto delle muse fino alla consacrazione di Hercules a Tebe come Eroe, gli spettatori osservano i tozzi e simpatici greci del cartone affaccendarsi in giro per il Peloponneso in cerca di un nuovo bellimbusto che li salvi dalle più disparate catastrofi. Beh, il mondo romantico non era troppo diverso da quello ellenico, forse solo meno colorato…
Per rappresentarlo non bisogna andare troppo più in là dal pensare l’Europa ottocentesca come popolata di eroi fantastici e leggende viventi in redingote; di immaginare un continente solcato da giganti ribelli e colossi della letteratura, della filosofia e dell’arte consunti dal proprio genio. Nel secolo delle rivoluzioni romantiche e borghesi l’eroe è ovunque: nella retorica popolare, nei romanzi, nella vita politica. Finalmente diventa un paladino tangibile, mettendo fine a quella tradizione che fino all’arrivo di Napoleone aveva voluto celebrare gli eroi laici come fossero apostoli, fuori dal tempo e puramente simbolici[6].
Proprio per questo, siamo ancora più fortunati nella nostra indagine culturale, perché si da il caso che il perfetto esempio dell’eroe romantico a cavallo fra romanzo e politica fu il “nostro” Giuseppe Garibaldi, certamente fra i «più popolari e longevi eroi politici del mondo ottocentesco», perfetta «congiunzione fra ‘mascolinità eroica’ e nazionalismo»[7]. Bello, curiosamente rassomigliante a San Giuseppe[8], colto e combattivo, questo è il Garibaldi “eroe dei due mondi”. Una leggenda vivente che solcò mari ed oceani, sorvolò le Alpi e le Ande infiammando l’immaginario collettivo di intere generazioni.
In questo breve scorcio ci occuperemo di descrivere Giuseppe Garibaldi nella sua pura estetica di eroe: quale fu la canonizzazione del patriota Garibaldi? In quale misura la sua fama attecchì in Italia e, soprattutto, presso l’opinione pubblica internazionale? Cercare di dare una risposta a simili quesiti implicherà intendere Garibaldi ed il garibaldinismo come puri fenomeni sociali. In altre parole, significherà non porsi l’obiettivo di “smitizzare” il «Dittatore», anche se sarebbe una sfida di vivo interesse, ma limitarsi ad analizzare questa complessa icona al pari di uno Jacopo Ortis o di un Lancillotto. Comporterà trattarlo come se fosse un campione di carta in movimento, scaturito dalla penna di un poeta romantico; prenderlo, in fondo, per quello che è stato: un eroe mediatico, un capo carismatico conosciuto[9].
Si era detto che finzione e realtà si intrecciano inestricabilmente negli anni delle passioni patriottiche. Nulla di più vero se si pensa che chi è chiamato a descrivere dal vivo l’ardore delle truppe volontarie di ribelli – di martiri della patria – non può che appellarsi alla fervida retorica dei romanzieri,
I longed for Sir Walter Scott to be on earth again, and see them; all are light, athletic, resolute figures, many of the forms of the finest manly beauty of the South, all sparkling with its genius and ennobled by the resolute spirit, ready to dare, to do, to die[10].
Tra romanzo e storia, allora, scopriamo l’evoluzione di un mito, nato fra le pagine dei tabloid ottocenteschi e suggellato dalla retorica nazionalista del Regno d’Italia, che nei suoi primissimi anni (anche prima della sua scomparsa) consacrò Garibaldi padre della Patria, chiave dell’amalgama degli italiani[11]. L’italianità del capo che obbedì al sovrano, consegnandogli le chiavi dello stivale e che in quel gesto assommò la remissione di tutto un popolo: è questo Garibaldi, «l’eroe semplice» ma straordinario che «ispira una nazione con una parola e scompiglia le più scaltre politiche dei più esperti statisti», il santo laico che sin dall’ultimo quarto dell’Ottocento venne celebrato e glorificato nei musei commemorativi, prime “case della memoria” italiane[12].
Eviteremo la tendenza agiografica ad identificare la persona fisica di Garibaldi con quella pubblica, come anche la tesi di una volontaria costruzione “manipolata” di un super-apostolo della patria ad opera dei movimenti radicali, e la attigua ricerca storica del limen fra quanto di vero e quanto di inventato ci fosse nella vicenda politica garibaldina. In questa analisi si cercherà di descrivere la nascita dell’immagine come opera di una interazione culturale (e quindi spontanea, non artificiale), fra gli schemi interpretativi del romanticismo, le radici politiche della carriera del Garibaldi e il galoppante contributo dei nuovi mezzi di comunicazione. Faremo ciò nella ferma convinzione che un simile fenomeno culturale sia potuto esistere solo in virtù di una società basata su nuovi meccanismi di gestione dell’informazione e partecipazione alla cosa pubblica[13].
3. Modello Garibaldi
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Essere un’icona è in primo luogo una questione di stile.
Bisogna farsi riconoscere, apparire facilmente identificabili, in particolar modo in un’epoca in cui la professione del paparazzo non è ancora stata inventata ed i personaggi pubblici non vengono fotografati ogni dieci minuti (ma sulla questione della società di massa ed i mezzi di comunicazione torneremo più avanti).
Sin dai primi anni ’40 dell’Ottocento Garibaldi venne stilizzato, attraverso la standardizzazione di elementi visuali distintivi, a loro volta espressioni delle virtù morali popolarmente attribuitegli. Questo “marchio” non rimase immobile ed impermeabile alle agitazioni del tempo come i vecchi eroi a-temporali pre-napoleonici, giacché la persona fisica di Garibaldi ed il suo agire influenzarono la coniazione del personaggio, che si mostra agli occhi dello studioso come in perenne “formazione”.
La sua immagine subì delle trasformazioni nel corso della carriera politica del patriota nizzardo, ma nell’insieme questa rigenerazione degli schemi interpretativi depose a favore di una fama che non accennò a diminuire e che anzi riuscì ad adattarsi alle pieghe prese dalla politica risorgimentale, diventando immagine etica della patria alimentata
dalla retorica della nazione in armi e dalla realtà della coscrizione obbligatoria [che] appare in forme particolarmente evidenti nella narrativa militante […] Anche per effetto della retorica della nazione in armi finisce così che gli eroi guerrieri della mitografia nazionale non siano considerati più soltanto come l’espressione di una ristretta élite combattente, ma siano fantasticati come quintessenza della maschilità nazionale[14].
Ecco a voi un eroe bello – una bellezza italianamente intesa! – «leale, puro, rispettoso dei deboli, coraggioso, capace di ignorare il dolore e il pericolo»[15].
3.1 Il bandito
In principio fu il bandito.
L’avventuriero di Montevideo è probabilmente il canone più fortunato fra quelli affibbiati al nizzardo.
Un copricapo alla maniera meridionale, o meglio alla garibaldina (!), oppure piumato, la camicia rossa con il poncho argentino, i pantaloni da gaucho: un esotico brigante. Con gli occhi da marinaio, la folta barba rossiccia che lo faceva assomigliare a un nuovo Cristo (in età moderna è un po’ difficile staccarsi dalla tradizione biblica…[16]), e il fisico atletico da eccellente nuotatore (cosa della quale era parecchio fiero). Non avevamo forse detto “kalos kai agathos”? Nel caso di Giuseppe non c’è nulla di più vero: oltre che essere così aitante e “figaccione” in questi primi anni salva uomini in procinto di affogare, protegge le donne, si fa ammirare dai mandriani brasiliani per la sua abilità nel macello e trasporto dei bufali[17]… Direte voi, fortunata chi se lo è preso! (l’amazzone ed altrettanto gagliarda Anita[18]).
Congiuntamente a questi sparuti dettagli visuali, ci rimane di questo periodo lo stile di vita sopra le righe, al margine delle leggi, che lo fece tanto amare dalle popolazioni di mezzo mondo (di due anzi!), ed anche quelle piccole illegalità che lo resero, invece, fastidioso agli occhi dei vertici ufficiali[19].
A fissarne l’immagine, spicca il caso di una fra le prime stampe ufficiali, quella sudamericana del 1847 che ritrae Garibaldi come un eroe trasognato e distante, con tanto di lunghi capelli coperti dal basco sulle ventitré, mantello scuro poggiato sulla casacca rozzamente tenuta in vita da un cordone, al quale è appesa la sciabola[20].
3.2 Il capo carismatico
Con la fama del bandito, l’immagine di Garibaldi rimbalza fino alla sua «amatissima» patria, l’Italia. Ma quando nel ’49 egli torna sul suolo natio per spendersi nella battaglia di liberazione nazionale, il suo profilo deve cambiare, deve “darsi un tono”. E così il sudamericano delle scorribande nelle pampas diventa leader dei volontari, il capo che sprona alla battaglia per le strade di Roma. Semplice, frugale: un D’Artagnan senza pizzi e fronzoli (non a caso Dumas sarà tra i fautori della sua immagine).
Ciò risulta chiaro dalle parole di chi a Roma lo vide in azione e lo descrisse a beneficio di un pubblico più vasto:
Lui si distingueva dalla tunica bianca, la sua aria quella di un eroe del Medio Evo, – il volto ancora giovane, dal momento che gli eventi della sua vita, sebbene così tanti, sono stati tutti giovanili, e non c’è fatica sulla sua fronte o sulle gote. Osservandolo si vedrà in lui un uomo impegnato nella carriera per la quale è nato[21].
Questo intrepido condottiero, quasi d’altri tempi, è probabilmente l’immagine più cara ai risorgimentali italiani. Ma la carriera politica e militare garibaldina era ancora di là dal dirsi conclusa. Dopo la ritirata da Roma e soprattutto dopo i drammi personali che accompagnarono la fuga dall’Italia e segnarono il suo peregrinare dall’Europa al Nordamerica, Garibaldi tornò in Italia dieci anni più tardi con un personaggio che può dirsi più completo.
3.3 Il Generale
In età più matura, più o meno ai tempi dell’esilio volontario a Caprera, la prestanza del condottiero a cavallo si adattò alla postura dell’uomo vissuto. Con il physique du role un po’ cadente, ormai a Giuseppe rimaneva un po’ difficile continuare a proporsi quale Cristo a cavallo. Di conseguenza i suoi berretti esotici da nababbo orientale lo porteranno a trasformarsi in un autorevole San Giuseppe nei diffusissimi dagherrotipi del secondo Ottocento, nonché in alcune derive dell’entusiasmo popolare, come fantasiosi riedizioni garibaldine del Padre Nostro:
Padre nostro che sei in Sicilia, glorioso e contento della già compita liberazione della terra italiana, sia santificato il nome tuo, […] Venghi presto il Regno di Vittorio, e tu, padre nostro Garibaldi, ci conduci nella gloria […][22].
Un make over che di certo lo aiutò in chiave di autorevolezza quando gli toccò di indirizzarsi agli ufficiali per la chiamata alle armi in vista della guerra anti-borbonica nella penisola:
Tra le qualità che devono primeggiare negli Ufficiali dell’Esercito Italiano, oltre il valore, deve contarsi l’amabilità […] col rigore si può ottenere una severa disciplina; ma è preferibile ottenerla coll’affetto e coll’ascendente […] dev’essere cura speciale degli ufficiali di stare coi loro militi, e prenderne cura, come della propria famiglia[23].
4. E insomma?
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Al netto della vecchiaia Garibaldi è stato sempre un capo. Tanto meno dismise il fascino esotico; tanto che, per esempio, non fece mai mistero del suo desiderio di essere «un brigante onesto»: Affascinato dalla vita dei gauchos, ne ripropose il modello economico anche in età più avanzata, ai tempi del ritiro nell’isola di Caprera[24]. Un esempio di democrazia sociale che non fu esente da una certa risonanza mediatica.
Insomma due corde di violino, quella del capo e quella del brigante, sapientemente toccate dai mass media che ne decantarono continuamente le lodi: dal coraggio del leone, alla mitezza e santità di spirito degli ultimi anni a Caprera[25]. Una figura ben precisa: amato e rincorso dalle signore di mezza europea – tanti amori gli vennero attribuiti dopo la scomparsa dell’«adoratissima» Anita; seguito ed adulato (lionized) da volontari e politici di tutto il mondo – tanto che molti leader gli si appellarono sperando di mobilitare le masse grazie al suo carisma; infine, inneggiato e ritinteggiato dalla penna dei più svariati letterati.
Un quadro in movimento, che più corre quanto più si mobilitano i suoi estimatori.
Note (↵ returns to text)- La statua che rappresentava l’ideale del giovane nel mondo classico.↵
- Anche detta “storia evenemenziale”↵
- Gli studi culturali hanno visto un rapido sviluppo nel corso del XX secolo. Dagli anni ’20-’40 della Histoire des mentalités; cfr. M. de Certeau La scrittura della storia, Jaca Book, Milano 2006, alle attuali correnti microstoriche; la ricerca culturale si è andata affinando utilizzando gli strumenti di discipline affini, ma non propriamente “storiche”, quali l’antropologia e l’etnologia. Per una disamina degli sviluppi della storia culturale, fra i vari, v. P. Burke La storia culturale, il Mulino, Bologna 2009.↵
- Per quanto concerne la cultura vittoriana e coloniale, ad esempio, il ruolo giocato dai protagonisti del romanzo d’avventura (l’esploratore inglese, il “buon selvaggio” e soprattutto la donna sia che essa fosse inglese o indigena) fu capitale nella formazione dell’atteggiamento europeo rispetto alla colonia ed è altrettanto importante nell’analisi della società coloniale. Fra i vari saggi v. A. Loomba, Colonialismo/postcolonialismo, Meltemi Editore, Roma 2006.↵
- La denominazione “Lungo Ottocento”, o per renderlo nella versione originale “The long 19th century”, è la periodizzazione che lo storico inglese Eric Hobsbawm teorizza nel gruppo dei tre fondamentali saggi Le rivoluzioni borghesi. 1789-1848; Il trionfo della borghesia. 1848-1875 e L’Età degli imperi. 1875-1914. L’idea di un “secolo lungo” è opposta, nella teoria del britannico, a quella di Secolo Breve, il Novecento così come analizzato nel successivo omonimo saggio. L’idea che soggiace questa dicotomia è che la parentesi ottocentesca, iniziata con la rivoluzione francese e l’instaurazione di una repubblica nazionale in Europa e finita con la Prima Guerra mondiale ed il seguente scardinamento dell’equilibrio degli stati borghesi, sia infatti una “era delle rivoluzioni” nazionali e borghesi.↵
- L. Riall, Garibaldi. Invenzione di un eroe, trad. it. Davide Scaffei, Laterza, Bari 2007, p. 58.↵
- L. Riall, Garibaldi. Invenzione di un eroe, op. cit., p. XIII e 62.↵
- Ad es. R. Reim Prefazione a Alexandre Dumas, Garibaldi, Newton, Roma 2011, p. 8.↵
- Con il corsivo si vuole: 1. affermare con forza l’inquadramento del fenomeno Garibaldi nella prima era mediatica; 2. sottolineare la distanza da quegli studi che hanno voluto riportare alla luce il Garibaldi «sconosciuto» sotto il peso della retorica.↵
- «Vorrei che Sir Walter Scott fosse ancora sulla terra per poterli vedere; sono tutti slanciati, atletici, risoluti, molti di loro dei più bei tipi d’uomo del sud, tutti sprizzanti genialità e nobilitati dal loro spirito risoluto, pronti ad azzardare, a fare, a morire», Margareth Fuller, Things and thoughts in America and Europe. By Margaret Fuller Ossoli, p. 357 ← mancano indicazioni bibliografiche, inoltre io metterei l’originale in nota e la trad. nel testo.↵
- Se ci si vuole proporre, infatti, di guardare a Garibaldi quale antonomasia, quale luogo comune della memoria italiana, allora non potrà rifuggirsi da una delle più castranti ovvietà che hanno interessato la nostra giovane nazione: l’idea che fatta l’Italia bisognasse «fare gli italiani». Ed il collante della figura ad arcione del cavallo bianco servì proprio a fare questo popolo disunito.↵
- Cfr. L. Riall, Garibaldi, op. cit., p. 443, 445.↵
- Cfr. L. Riall, Garibaldi, op. cit., pp. 475 e ss.↵
- A. M. Banti, L’onore della nazione. Identità sessuali e violenza nel nazionalismo europeo dal XVIII secolo alla Grande Guerra, Einaudi, Torino 2005, p. 218.↵
- A. M. Banti, L’onore della nazione…, op. cit., p. 218.↵
- L’appropriazione dell’immagine del Cristo redentore per caratterizzare l’immagine degli apostoli della patria è tipica dell’elegia di taluni “santi laici”, come nel caso di Garibaldi. Seguendo la posizione di Banti, infatti «è soprattutto con alcune figure – reali o immaginarie – del patriottismo ottocentesco che il collegamento viene stretto in modo profondo. E così si ammanta del sangue di Cristo la figura di Garibaldi, la cui vita – eroica, ma ricca di sconfitte, politiche o militari – dà materia per vederlo sotto la luce del martirio, mentre i tratti fisiognomici – talvolta opportunamente ritoccati – si sovrappongono teatralmente a quelli del Salvatore in molte stampe o illustrazioni giornalistiche», A. M. Banti, L’onore della nazione…, op. cit., p. 225.↵
- L’episodio è riportato nelle memorie redatte da Alexandre Dumas.↵
- Sempre di questi anni, e sempre riportato dalla penna del romanziere mulatto è l’incontro-caccia con Anita per il quale cfr. A. M. Banti, L’onore della nazione…, op. cit.↵
- L. Riall, Garibaldi, op. cit., p. 33.↵
- Per una contestualizzazione dell’opera in questione e del suo autore, vd. Ibidem p. 49↵
- «He was distinguished by the white tunic; his look was entirely that of a hero of the Middle Ages, – his face still young, for the excitements of his life, though so many, have all been youthful, and there is no fatigue upon his brow or cheek. Fall or stand, one sees in him a man engaged in the career for which he is adapted by nature», Margareth Fuller, Things and thoughts in America and Europe. By Margaret Fuller Ossoli, p. 414 ← come prima.↵
- Cit. in L. Riall, Garibaldi, op. cit., p. 335.↵
- 6 Agosto (??) in Scritti e discorsi, cit. in L. Riall, Garibaldi, op. cit., p. 368.↵
- Un parallelo citato da più fonti, fra le quali si ripropone la corrispondenza italo-americana della sua sostenitrice Margaret Fuller.↵
- Cfr. L. Riall, Garibaldi, op. cit., p. XIV.↵