Libia e dintorni
La Libia è l’ottavo stato nella produzione di petrolio fra i 12 membri Opec e il primo in Africa, seguita da Nigeria e Angola (Oil and Gas Journal). I maggiori importatori di petrolio libico sono l’Italia, la Germania, la Francia e la Spagna. Prima della guerra la Libia produceva 1,5 milioni di barili al giorno, livello che non raggiungerà prima di 18 mesi secondo l’ex capo della National Oil Corporation Shokri Ghanem.
A inizio dicembre 2011 la produzione di petrolio in Libia – quasi interamente bloccata durante i mesi di guerra civile fino all’inizio di ottobre – ha già raggiunto 750 mila barili al giorno, quasi la metà della produzione dell’anno precedente. Nel caso del gas naturale, la produzione risulta più modesta (15 miliardi di metri cubi all’anno), ma comunque assai rilevante per un paese di pochi milioni di abitanti.
La produzione libica di energia si sta riattivando molto più rapidamente di quello che si poteva prevedere qualche mese fa, alla fine delle ostilità tra le forze ribelli e quelle del regime di Gheddafi.
La rilevanza del riavvio della produzione libica a un ritmo così sostenuto è data dal fatto che la Libia vanta la maggior dotazione di riserve di idrocarburi del continente africano: 44,3 miliardi di barili di greggio e 1.540 miliardi di metri cubi di gas naturale. Potenzialmente, quindi, la Libia potrebbe incidere maggiormente di quanto fatto in passato sulla produzione mondiale di energia.[1]
Durante la guerra civile, le compagnie internazionali e il personale straniero sono state costrette ad abbandonare il paese. Seppure nel complessivo mercato energetico mondiale la produzione libica sia modesta, la sostituzione del greggio libico da parte dei paesi europei ha comportato maggiori costi di gestione e di trasporto, derivanti dall’importazione di greggio da altre fonti e dalla necessità di adeguare gli impianti di raffinazione per le differenti qualità di greggio (quello libico è molto pulito). Le grandi compagnie internazionali quindi hanno dovuto sopportare extra costi determinati dall’aumento delle quotazioni del periodo. Oltre che per l’Europa, il mercato libico costituisce un’importante risorsa per i mercati emergenti, grazie all’alta qualità del greggio del paese, alla necessità di trasformazione in combustibile per trasporto, nonché come fonte alternativa per la generazione di energia. La ricchezza di idrocarburi del paese e la necessità di un sistema energetico funzionante, per l’ottenimento della rendita e della sua redistribuzione, potrebbero essere fattori determinanti per costringere le varie fazioni ad accordarsi e a trovare un “modus vivendi” pacifico: una situazione non troppo dissimile da quella dei paesi del Golfo, ricchi di risorse energetiche.
Le principali imprese presenti sul territorio sono la francese Total, l’italiana ENI, la Società Petrolifera nazionale Cinese (CNPC), la British Petroleum, il consorzio spagnolo REPSOL, l’Exxon Mobil.
L’11% delle esportazioni di petrolio libico si dirigono verso la Cina ed è l’ENI a produrre quasi il 25% del totale del petrolio esportato dalla Libia.
L’Unione Europea dipende invece in larga misura dal petrolio libico: l’85% del petrolio proveniente dalla Libia è venduto, infatti, a stati europei. In particolare il 30% del petrolio importato dall’Italia e il 10% del gas provengono dalla Libia. Anche Francia e Germania, seppure in misura minore, ne sono dipendenti.
La Libia inoltre è in una posizione strategica per il controllo dell’Africa e delle sue risorse da parte del comando del Pentagono AFRICOM, sorto nel 2008 sotto la presidenza Bush Jr.
Gheddafi ha dato concessioni sia alla Russia sia alla Cina, due storici rivali degli Stati Uniti. Ecco perché la fine del suo regime costituisce un’occasione d’oro per gli USA, finalmente in grado di fronteggiare i potenti concorrenti anche su questo quadrante. Soprattutto, per gli USA è fondamentale controllare la Cina, che è il principale possessore del suo debito.
La Cina si è mossa attivamente in paesi ormai abbandonati dalle ex potenze coloniali europee come Francia, Gran Bretagna e Portogallo. Il Sudan è diventato una delle fonti più importanti di petrolio per il colosso cinese, fin dagli anni ’90. Qui la Cina ha costruito un oleodotto lungo 1500 km che collega i giacimenti situati nel Sud del paese, con Port Sudan che si affaccia sul Mar Rosso. Nel 2011 il petrolio sudanese, quasi tutto proveniente dal Sud, ha costituito il 10% di tutte le importazioni petrolifere cinesi (il 60% della produzione giornaliera del Sudan).
Gli USA stanno convincendo il neonato Sud Sudan a costruire una nuova pipeline indipendente dal Nord, attraverso il Kenya. Questo creerebbe di sicuro ulteriori tensioni fra le due neonate entità africane.
La Libia però è anche la porta di ingresso verso il Chad, potenzialmente ricco di petrolio e dove Chevron ed Exxon Mobil hanno in progetto la costruzione di una pipeline. Il sud del Chad, inoltre, confina con la regione sudanese del Darfur, ricco anch’esso di petrolio. La Cina ha interessi in entrambi gli stati.
Di fronte a questo quadro il piano degli Stati Uniti sembra essere quello di stringere legami con Libia, Marocco, Tunisia e Algeria, prima sotto la tradizionale sfera di influenza francese, estromettendo così la stessa Francia e la Cina.
Egitto
Il nuovo giacimento di gas scoperto nella regione del delta del Nilo, a 50 Km da Damietta, ad opera della British Petroleum Egypt e dell’ENI, le quali detengono ciascuna il 50% della concessione, è un altro importante segnale della corsa energetica in atto nel Nord Africa.
La Società Generale petrolifera egiziana cerca di reperire i fondi presso le banche internazionali per dare impulso alle esportazioni verso paesi come la Giordania e Israele, per bilanciare il costo delle importazioni di alcuni prodotti, come butano e gasolio, e tenere così in ordine la bilancia dei pagamenti.
In corso vi sono il progetto della British Petroleum (BP) da 11 miliardi di dollari e il potenziamento degli investimenti dell’ENI nelle regioni del Sinai, nel Sahara occidentale e nel Mediterraneo. Anche la malese Petronas sta investendo 2,5 miliardi di dollari in un progetto congiunto con la BP, secondo quanto ha dichiarato il Ministro del Petrolio egiziano Abdallah Ghorab al quotidiano di stato, Al Haram.
La produzione di gas in Egitto è cresciuta negli ultimi anni dai 21 miliardi di metri cubi del 2000 ai 62,7 del 2009 (dati BP); il consumo domestico è a sua volta aumentato del 6%, comportando così la contrazione delle esportazioni dai 18,3 miliardi di metri cubi del 2009 ai 12,2 del 2010.
Salmon è il terzo giacimento scoperto dopo Satis-1 e Satis-3 nel delta del Nilo.
Mediterraneo Orientale
Il rapporto World Energy della BP del 2011 attesta che nel Mediterraneo orientale vi siano circa 122 trilioni di piedi cubi di gas naturale, più di quanto posseggano tutti gli stati membri dell’Unione Europea messi assieme.
Una delle ultime scoperte, il quadrante 12 o giacimento Afrodite si trova nella zona economica esclusiva della Repubblica di Cipro. La compagnia texana Energy Noble ha avviato prospezioni di idrocarburi nelle acque cipriote su mandato di Nicosia.
Tra gli attori coinvolti nella questione vi sono Cipro, Israele e Turchia, con Bruxelles dalla parte di Nicosia.
L’altro giacimento scoperto, Leviathan, si trova infatti vicino alle coste israeliane, ma tocca anche Cipro, le coste siriane e quelle libanesi. Si stima che contenga circa 453 miliardi di metri cubi di gas, che potrebbero rendere autosufficiente Israele e addirittura farne un esportatore di combustibili, a livello regionale.
Israele, a metà dicembre 2010, ha concordato con Cipro la demarcazione del confine marittimo, le rispettive zone di esplorazione e le zone economiche esclusive (ZEE). Secondo il diritto internazionale marittimo, queste possono estendersi fino a 200 miglia dalla costa, ma in questo caso i due stati sono distanti solo 260 miglia; si è optato perciò per la linea mediana come limite.
Cipro e Israele si sono accordati anche con l’Egitto e la Giordania; Israele ha poi, unilateralmente, fissato la linea di demarcazione con la striscia di Gaza.
La Turchia, da parte sua, teme che, assieme alla Repubblica di Cipro Nord, venga tagliata fuori dai proventi della scoperta che Israele, Cipro Sud, Grecia ed Egitto hanno già provveduto a spartirsi.
Il 21 settembre scorso il Ministro degli Esteri turco Davutoglu ha annunciato la sigla di un accordo sulla delimitazione delle piattaforme territoriali tra Turchia e Cipro Nord. Le dichiarazioni preoccupate della Turchia sono considerate pretestuose dagli USA e dall’UE, poiché la Turchia non ha mai voluto ratificare la carta delle Nazioni Unite che regola il diritto del mare (UNCLOS), alla quale ora si appella.
Il 23 settembre però la motonave esplorativa Piri Reis entrava nelle acque del quadrante 12 a sud di Cipro, fino a una sessantina di km da dove gli israeliani e gli americani trivellano. Quello che preme ad Ankara, quindi, non è tanto la riunificazione di Cipro o i diritti della popolazione turca dell’isola (che paiono ora motivazioni strumentali), quanto la possibilità di mettere le mani sui giacimenti. La Turchia ha poi cominciato ad esplorare la propria ZEE, tramite la Shell, a partire dal 23 novembre scorso.
Anche la Russia non ha perso tempo. Gazprom, secondo quanto scrive la Famagusta Gazette, sarebbe pronta ad avviare prospezioni in 2 zone off-shore, nei pressi del giacimento Afrodite. Il 19 novembre anche la porta-aerei russa, “Ammiraglio Kuznetsov”, ha fatto il suo ingresso sulla scena con 24 caccia ad ala fissa e diversi elicotteri.
Il Libano, invece, è rimasto indietro nella corsa al gas del Mediterraneo, a causa non solo dei rapporti con Israele, ma anche della sua composizione interna. Secondo una dubbia linea tracciata da Tel Aviv, Leviathan si troverebbe nella ZEE di Israele. Per Beirut, però, la linea corre troppo a nord di Haifa, inglobando un tratto di mare che si trova davanti alla città libanese di Tiro. La convenzione UNCLOS garantisce ad ogni stato di condurre attività fino a 200 miglia nautiche dalle proprie coste. Tuttavia, nel Mediterraneo orientale, che non è un oceano, queste zone si sovrappongono il più delle volte. Inoltre, Israele non ha neanche ratificato la convenzione, mentre il Libano lo ha fatto.
La questione in Libano si scontra anche con le frequenti crisi politiche che subisce il paese: passare leggi sulle esplorazioni e sulle estrazioni di risorse petrolifere non è in cima all’agenda politica dell’esecutivo. Altro ostacolo è la divisione settaria che caratterizza il paese e che si estende anche al controllo sul fondo che gestirà i guadagni dello sfruttamento delle risorse: non si tratta solo di confini marittimi, quindi, ma anche di problemi interni.
Attualmente il Leviathan è pattugliato da navi da guerra e sottomarini israeliani, mentre le trivellazioni continuano senza che ci sia stata una chiara risposta dall’Onu.
Iran
Il petrolio è la principale fonte di guadagno per l’Iran, con 73 miliardi di dollari incassati nel 2010 (più del 50% dell’intero bilancio nazionale), secondo il Dipartimento dell’Energia degli Usa e il FMI.
Gli Usa stanno tentando di convincere tutti i loro partners a rivolgersi altrove (Libia, Iraq, ecc); lo scopo ultimo non è eliminare il petrolio iraniano dal mercato mondiale, ha affermato Mark Dubowitz, direttore dell’Iran Energy Project presso la Fondazione per la difesa delle democrazie di Washington, ma ridurne significativamente prezzi e guadagni.
Le sanzioni imposte dal Congresso Usa alla banca centrale iraniana scoraggiano ulteriormente gli investimenti verso Teheran.
Dennis Ross, fino a poco tempo fa Consigliere speciale di Obama per l’Iran e ora impiegato presso il Washington Institute for Near East Policy, ha affermato che il trucco sta nell’impedire che l’Iran benefici comunque di queste misure. Questo succederebbe se gli acquirenti rimasti all’Iran venissero costretti a pagare prezzi più alti; la chiave è tenere stabili i prezzi del petrolio nel mercato globale.
L’Iran, dal canto suo, di fronte all’impatto inevitabile delle sanzioni sulla sua economia, cerca soluzioni alternative. Il Ministro del Petrolio iraniano, ad esempio, ha firmato un accordo col Ministro delle Industrie e del Commercio afghano per un milione di tonnellate di petrolio e derivati. Il ministro iraniano ha dichiarato che attualmente la produzione annuale è di 200 mila tonnellate e che dopo l’accordo il volume aumenterà a più di un milione.
La Repubblica Islamica, che è stata a lungo dipendente dall’importazione di benzina per il 30-40% del suo consumo, ha iniziato ad esportare il carburante solo quest’anno. Ad aprile, fonti commerciali hanno reso noto che l’Iran ha firmato un accordo per la vendita di benzina al vicino Iraq. Ciò non vuol dire, però, che l’Iran sia diventato un esportatore netto, libero dalla dipendenza dall’importazione di benzina. I dati di novembre mostrano infatti che le importazioni sono aumentate del 21% rispetto a settembre. Ahmadinejad ha dichiarato che l’Iran diventerà esportatore netto di benzina nel 2013, nonostante le sanzioni imposte dall’Occidente.
Iraq
L’Iraq, membro fondatore dell’Organizzazione dei paesi esportatori di Petrolio, dispone dell’80% delle riserve petrolifere mondiali e rappresenta tuttora una sorta di miraggio per gli investitori di mezzo mondo, considerate le consistenti prospettive di sviluppo.
Guardando alla produzione odierna, le riserve ammonterebbero a 143 miliardi di barili, pari al 12% delle riserve mondiali, con una crescita del 25% rispetto all’anno precedente. La produzione giornaliera è di 2,7 milioni di barili proveniente da 28 pozzi petroliferi, che si trovano soprattutto nel nord e nel sud del paese.
La disputa sulla gestione delle risorse resta tra le cause principali dell’instabilità dell’intera regione.
Il KRG (governo del Kurdistan) chiede al Governo federale iracheno l’attribuzione di alcuni ricchi territori, sulla base della rivendicazione delle proprietà curde confiscate dal regime.
Ma una parte non meno importante di responsabilità per l’attuale situazione del paese va attribuita al governo di occupazione americana che, con la sua politica, ha lavorato alla divisione della società civile, basandola sull’accrescimento di contrasti interetnici e interconfessionali.
L’attuale fase di stallo normativo e istituzionale favorisce ancora una volta le compagnie petrolifere straniere, nel loro tentativo di acquisire contratti di sfruttamento o vincere i bandi di gara in corso di emissione.
Shahristani, ministro del petrolio iracheno fino al 2010, ha ribadito la solidità dei rapporti con gli Usa, che concordano sulla necessità che i contratti siano approvati dal governo centrale. Il punto è che il petrolio può unire l’Iraq e favorire uno sviluppo armonioso del paese, ma può anche diventare uno strumento di divisione, guerra civile e interregionale tra governatorati e tribù. Se le risorse di greggio non saranno gestite centralmente e se i proventi non saranno distribuiti a tutti gli iracheni il petrolio diventerà un’arma pericolosa. Una gestione autonoma, ad esempio, da parte del Kurdistan, può diventare un precedente per le altre regioni, come Basra, dove viene prodotto il 70% del petrolio iracheno. Il primo a rimetterci sarebbe proprio il Kurdistan che, tramite il sistema di redistribuzione del petrodollar budget, beneficia del 17% dei proventi del petrolio di Basra. Qualora invece la regione del Sud decidesse di comportarsi come il Kurdistan, quest’ultimo perderebbe la sua quota di proventi. È evidente l’urgenza di una nuova legislazione nazionale che chiarisca le diverse procedure e le autorità competenti per la gestione del settore.
L’idea che l’Iraq, una volta invaso, sarebbe diventato un campione del libero mercato e che avrebbe lasciato l’Opec portando alla caduta del prezzo del petrolio è ben presto svanita. Un Iraq stabile e democratico poteva spingere per una quota più alta, ma i suoi storici legami quale membro fondatore gli avrebbero, comunque, impedito di minare i suoi stessi interessi. Il risultato è invece un’Arabia Saudita che domina ancora di più il mercato, grazie all’assenza del potenziale rivale e una minor produzione dell’Opec, che ha causato il rialzo dei prezzi.
L’invasione stavolta è stata anche incapace di proteggere gli impianti petroliferi. Una campagna di sabotaggio è stata diretta soprattutto contro il principale oleodotto del Nord che collega l’Iraq alla Turchia, con il risultato di un nuovo calo della produzione. L’Iraq diventa quindi dipendente dall’oleodotto meridionale, che è vulnerabile, però, all’interdizione da parte iraniana.
Conclusioni
Le ultime notizie riferiscono che un accordo preliminare sull’imposizione dell’embargo all’Iran, anche da parte dell’Unione Europea, per fermare le mire nucleari iraniane, smentite costantemente da Teheran, sarebbe stato raggiunto. Non è precisato il momento in cui la misura sortirà effetto; si pensa alla fine del mese. L’annuncio dell’accordo ha immediatamente comportato un picco nei prezzi del greggio.
Alcuni stati europei sono preoccupati delle conseguenze che potrebbero ripercuotersi su un’Europa già in grave crisi. Uno su tutti la Grecia. Se l’embargo dovesse essere attuato, l’Ue dovrà far ricorso ad altre riserve, probabilmente a quelle saudite, come ha riferito Guenter Oettinger, funzionario della Commissione energetica dell’Unione.
La decisione arriva dopo le ultime tensioni tra Teheran e Washington nel Golfo, dove negli ultimi giorni si sono confrontate la portaerei Uss John C Stennis e la flotta da guerra iraniana, impegnata fino a qualche giorno fa in un’esercitazione militare. Lo scopo della stessa era quello di dimostrare la capacità iraniana di controllare lo stretto di Hormuz e di chiuderlo, se necessario, come ha dichiarato il vice presidente iraniano Mohammed Reza Rahimi.
Il capo della Commissione parlamentare sulla sicurezza nazionale e la politica estera di Teheran, Aladdin Borujerdi, ha infatti affermato che se le esportazioni di petrolio iraniano verranno sanzionate, nessun altro potrà usufruire dello stretto di Hormuz per i traffici petroliferi. Il dipartimento della difesa Usa ha dichiarato tuttavia che la portaerei statunitense continuerà a pattugliare lo stretto, a supporto delle operazioni militari regionali e per assicurarsi che resti aperto. Sembrerebbe quasi una prova di guerra, quella che si sta svolgendo in questi giorni nel Golfo persico. Nel frattempo, lo stallo nel dialogo sul nucleare iraniano tra Bruxelles e Teheran prosegue, nonostante il piano proposto dalla Russia.
Inoltre, l’annuncio statunitense di un prossimo war game in Israele per il quale saranno inviate migliaia di truppe americane, appare un chiaro monito a Teheran. La maggior parte delle truppe statunitensi è stata ritirata dall’Iraq solo per essere trasferita in Kuwait o negli altri stati del Golfo. Questo rende molto più semplice il loro utilizzo in un’altra guerra.
Gli Usa e i loro alleati stanno attuando un piano pericolosamente simile a quello messo in atto contro l’Iraq nel 2003 e con lo stesso pretesto: sanzioni e minacce, per impedire che il paese si doti di armi nucleari.
Il presidente israeliano Shimon Peres, in occasione dell’incontro tra gli ambasciatori israeliani nel mondo, ha dichiarato di avere “risposte” alla minaccia nucleare iraniana e di possedere “forze di deterrenza reali”, riferendosi presumibilmente alle 200 o 300 testate nucleari di cui dispone il paese.
L’Occidente considera le forniture petrolifere e, quindi, la propria sicurezza energetica una linea rossa che nessuno può oltrepassare.
La definizione di sicurezza energetica risente in modo evidente della prospettiva dei paesi importatori e della loro situazione di dipendenza. Si tratta di una visione inevitabilmente parziale della questione: anche i paesi produttori si trovano in una condizione di dipendenza e anche per loro i flussi energetici rappresentano una questione di sicurezza. Per i paesi produttori, come per quelli consumatori, le risorse energetiche sono dunque tanto importanti da porre le parti in una situazione di dipendenza reciproca. La loro sicurezza tende a sovrapporsi e si traduce in un forte interesse al regolare proseguimento degli scambi. La dimensione economica del concetto di sicurezza riguarda soprattutto i prezzi delle risorse energetiche, la cui volatilità affligge sia produttori che consumatori.
Inoltre, la crisi economica in cui versano Europa e Usa accentua la dipendenza e la vulnerabilità energetica, rende più aggressivi gli attori coinvolti di fronte alla possibilità di un prezzo del petrolio più che raddoppiato. Lo Stretto di Hormuz, in particolare, è strategico per Giappone, Europa e Usa; sede di giacimenti di gas e petrolio e dell’impianto GNL, situato presso l’isola di Das; centro di porti e terminal petroliferi e al centro di controversie marittime, riguardanti il limite delle acque territoriali reclamato dall’Oman e la sovranità su alcune isole occupate dall’Iran e rivendicate dagli Emirati. La chiusura dello stretto, attraverso il quale transita circa il 40% del traffico globale di greggio, potrebbe essere la scintilla di una nuova guerra.
I paesi del Golfo saranno ugualmente danneggiati in uno scenario del genere: la rappresaglia iraniana, infatti, prenderà di mira certamente gli stati che ospitano basi americane entro i propri confini. Senza contare che l’insaziabile gigante cinese, che dipende pesantemente dalle importazioni iraniane, non resterà certo indifferente.
* Nerina Schiavo è laureanda in Relazioni Internazionali presso l’Università la Sapienza di Roma