Magazine Cinema
Spagna, 1998
30 minuti
Classe 1969, lo spagnolo Nacho Cerdà si è creato una certa fama nell'ambiente dell'horror/gore più estremo grazie al controverso Aftermath (1994) nel quale, affrontava uno dei temi che più inorridiscono l'immaginario collettivo, la necrofilia, con uno stile però distante dagli "amori necrofili" inscenati dal tedesco Jorg Buttgereit nel suo dittico Nekromantik (1987 - 1991). Il cinema di Cerdà, al contrario, si delinea con estrema precisione chirurgica; rigoroso e glaciale, si allontana dalla pura esibizione exploitation per rivestirsi di una patina, nonostante tutto, elegantissima, dove domina una fotografia generalmente impostata sui toni lividi, freddi, che fanno da sfondo ai suoi drammi funerei. E' una macabra poetica d'autore che raggiunge la perfezione con Genesis, capitolo conclusivo di una trilogia sulla morte iniziata con The Awakening (1990) - L'istante tra la vita e la morte - e proseguita con il succitato Aftermath (L'estremo confine tra sesso e morte). Tre opere significative che percorrono silenziosamente il percorso verso, durante e oltre, quell'inevitabile attimo che prelude alla fine di tutto.
Con Genesis, ci troviamo veramente di fronte a uno degli horror (se così possiamo considerarlo, in quanto "horror", lo è come può esserlo La Morte Vivante, del francese Jean Rollin, per fare un paragone poeticamente affine) più interessanti di quegli anni novanta che alla fine, nel genere, poco di originale sono riusciti ad offrire. Confezione ancora più elegante di Aftermath, una meticolosa cura nei dettagli e formato panoramico. In Genesis la morte viene oltrepassata, l'ultraterreno quì, a differenza di The Awakening, è fatto di carne e sangue, marmo e sabbia. Il processo vita/morte viene invertito, Cerdà rivisita il mito di Frankenstein e ne fà la sua personale visione, una visione che è puramente dettata da un amore incancellabile, un'intenso desiderio di rigenerare la vita. Uno scultore (Pep Tosar, già protagonista di Aftermath) perde la moglie in un tragico incidente d'auto. Per onorarne la memoria decide di realizzare una statua che ne rappresenta le fattezze, ma qualcosa di alquanto strano sta per accadere. Una mattina al risveglio, il protagonista comincia a "sanguinare" dal naso, successivamente si accorge che la statua della moglie presenta dei solchi sanguinanti in varie parti del corpo. A nulla serve il lavaggio che viene effettuato, le ferite riaffiorano ancor più numerose finchè la sera stessa, l'uomo, osservandosi allo specchio nota che anche il suo corpo presenta delle lesioni. Il processo d'inversione è iniziato e a questo punto lo spettatore può benissimo intuire come si evolverà la situazione; da un lato la statua riprende vita, il gesso lentamente si liquefa per far riemergere nuovamente la carne, viva e pulsante, generata da un amore che ha superato la barriera dell'oltre. La controparte è rappresentata dal processo inverso; la carne dell'uomo muta in marmo, il suo sangue in sabbia, le articolazioni s'irrigidiscono. Il corpo si trascina sofferto ai piedi della statua, un ultimo sguardo ai filmini di famiglia dove il volto della moglie impresso nella pellicola crea un'omografia con quello in procinto di rinascere; un ultimo, soffocato tentativo di poter dichiarare il proprio amore... Poi l'alba. La luce che filtra dalle finestre del laboratorio illumina la donna nella sua palingenesi. Di fronte a lei una nuova scultura ha preso forma, con un braccio ancora teso in sua direzione. L'occhio è l'unico, importantissimo elemento a cui non è ancora stata negata la visione della vita, per un ultimo, brevissimo e intenso momento, lo sguardo dell'uomo riesce ad incrociare quello dell'amata, prima di chiudersi definitivamente nell'oscurità.
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