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Genesis of the write & touch

Creato il 25 luglio 2014 da Indian

Lezioni condivise 90 –  Il silenzio che fa rumore  

Visto che quivi si dovrà trattare di una certa meditazione, mi domando se esista un qualche stile letterario simil drag-and-drop, qualcosa come write & touch (the balls)… Le parentesi e l’inglese sono una ulteriore precauzione apotropaica.

Ho già trattato de “Il sentimento del tempo” di Ungaretti nella lezione 88, con particolare attenzione agli Inni – che già non erano tutta questa allegria – , doversi occupare de La morte meditata, non so in quale misura possa migliorare l’umore.

Per me sarebbe di per sé un argomento tabù, tuttavia Ungaretti ha sempre parlato dell’atleta senza sonno – per usare le sue parole – , sia quando ne aveva ben d’onde, durante la guerra, ma anche in anni di morte della libertà, durante il fascismo; purtroppo a quella lui non si è mai riferito, utilizzando semmai il paradosso forse involontario, di parlare di libertà nella cella del condannato a morte.

La sua prospettiva con la sorella dell’ombra o madre velenosa, appare come una sorta di feticcio, un amuleto verbale, visto che è vissuto 82 anni, anche se tutti i suoi gioiosi pensieri gliene facevano dimostrare cento.

Egli evoca questa donna da guardare con distacco, in maniera temporale, storica, ma soprattutto metafisica, edenica, mai dantesca però, molto più lugubre – anche quando diveniva epica, favola – della desolazione leopardiana, che parlarne è un’impresa eroica e al contempo temeraria.

La morte meditata (1932) è composta da sei canti ed è la sesta sezione della silloge, l’ultima, prima che nell’edizione finale del 1936 venisse inserita L’amore. Stile ermetico più che mai, nominalistico, evanescente e indistinto, per capirne la lugubre portata, è sufficiente l’avvio del primo canto:

O sorella dell’ombra,/ Notturna quanto più la luce ha forza,/ M’insegui, morte.

L’abbinamento di amore e morte, vita e caducità umana, innocenza e memoria, temi dell’intero lavoro, qui non hanno soluzione di continuità e nell’atmosfera che si crea gli elementi positivi hanno la peggio.

L’uomo non può fare altro che fermarsi a osservare le tracce del percorso di questa tenebra contrapposta alla luce. Essa è la Madre velenosa degli evi/ nella paura del palpito/ e della solitudine,/ bellezza punita e ridente, forse deridente, metafora della poesia.

Sognatrice fuggente,/ atleta senza sonno/ della nostra grandezza,/ quando m’avrai domato, dimmi:/ nella malinconia dei vivi/ volerà a lungo la mia ombra? Un’altalena continua tra vita terrena ed eterna che distrugge anche la poesia, una sorta di attentato, un processo iniquo, da Omero in poi. Il silenzio omerico è notturno, ma quieto, è il silenzio di Aiace Telamonio nell’XI canto dell’Odissea nei confronti di un tardivo conciliante Ulisse.

L’infarcitura luminosa di storia in Ungaretti, si fa subito tetra, nonostante gli elementi religiosi e mitici, con la deriva funerea e sepolcrale, un’atmosfera grigia, che sta talmente tanto nelle sue corde da riuscire a rendere buia anche l’estate con il sole alto; essa con l’uso o abuso di antitesi e ossimori, diventa torrida, paurosa, distruttrice. Molti brani sono stati sottoposti a un continuo lavorio stilistico e a modifiche, anche con il passaggio dalla scrittura dialogica a quella monofonica.

Nel canto secondo, l’emula sofferente, il silenzio che fa rumore, prosegue per la sua strada e la lusinga finale alla muta parola, esaspera semplicemente il disincanto: “Ti odo cantare come una cicala/ nella rosa abbrunata dei riflessi”. Il canto terzo è speculare, ossessivo, delirante, le cicale ritornano, non nella rosa, ma irose: Tu, nella luce fonda,/ o confuso silenzio,/ insisti come le cicale irose. Torna di nuovo il concetto di silenzio chiassoso.

La conclusione, il canto sesto, è di nuovo un’invettiva contro la Memoria, colpevole di offrire spiragli di positività nello squallore totale, e con lei ne fa le spese l’uomo che vi ricorre: Solo tu, memoria demente/ la libertà potevi catturare (…) Con voi, fantasmi, non ho mai ritegno,/ e dei vostri rimorsi ho pieno il cuore/quando fa giorno. Fosse una penitenza, un principio di rimorso, volontà di espiazione, ma non pare affatto, sembra invece mera rimozione.

Era la giusta fine per quella silloge, l’aggiunta della settima sezione, L’Amore, esaspera e confonde. Essa venne aggiunta successivamente alla prima pubblicazione, portando i brani da 62 a 70. Nonostante il titolo l’atmosfera cupa non cessa, ma appare un po’ fuori posto e aumenta la nostra perplessità.

(Letteratura italiana moderna e contemporanea  – 18.3.1997) MP

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