Sul periodico americano The New Republic è recentemente comparso un lungo articolo di Judith Shulevitz che esamina un fenomeno che, pur essendo sotto gli occhi di tutti, è poco studiato, ovvero il graduale innalzamento, a partire dagli anni ’70, dell’età delle persone, e delle donne particolarmente, quando nascono i loro figli.
In USA questa posticipazione del primo figlio è stata mediamente di quattro anni, con grandi differenze legate all’etnia, alla scolarità, allo stato socioeconomico, alla regione. In Italia l’età media al primo parto è di 5 anni maggiore rispetto agli USA: 31 anni invece di 25,4.
L’autrice racconta come ella stessa, all’età di 37 anni e con un marito di 45, si sia ritrovata nello studio di un medico specializzato in infertilità. È iniziato un iter fatto di esami dello sperma, iniezioni di ormoni follicolo-stimolanti e luteinizzanti che stremarono la donna e la resero ancor più miope, alla fine rimase incinta tramite la fecondazione assistita. All’età di tre anni al bambino venne diagnosticato un disturbo border-line dell’integrazione sensoriale e dovette frequentare una palestra specializzata, nella cui sala d’aspetto si notavano parecchie mamme di mezza età.
In seguito il bimbo stette bene e nacque in modo naturale anche una bambina sana; tuttavia la giornalista continuò a studiare il fenomeno ed appurò che, da coppie in là con l’età, nascevano spesso bimbi con problemi neurologici di varie gravità: sindrome di Asperger, autismo, disturbo ossessivo-compulsivo, deficit dell’attenzione. Questi bambini sono aumentati di circa il 17 per cento tra il 1997 e il 2008 (certo anche per la maggiore e forse eccessiva attenzione del mondo medico e socio-scolastico) ed un bambino americano su sei ha oggi una di queste disabilità, fortunatamente spesso in forma lievissima sovrapponibile alla normalità.
Parallelamente, uno studio recentemente pubblicato sul New England Journal of Medicine asserisce che, mentre la percentuale di bambini nati con anomalie è del 5,8% sul totale, nel caso di nascite a seguito di tecniche di procreazione assistita sale all’8,3%. Il motivo? Probabilmente, una somma di più fattori negativi: l’età mediamente più avanzata di entrambi i genitori, una loro generica difficoltà a procreare, i farmaci somministrati alla madre per stimolare le ovaie, i trattamenti all’embrione in provetta. Come spesso avviene, il tentativo di forzare la natura e di deviarne il corso lascia un prezzo da pagare.
Linda Gridelli