Nel 1939 Adolf Hitler, quando uno dei suoi generali gli fece notare che l’imminente sterminio di milioni d’ebrei da parte delReich non sarebbe passato inosservato, replicò: «Chi parla ancor oggi dell’annientamento degli armeni?». Basta quest’aneddoto per avere un’idea di come del Medz Yeghern, il «Grande crimine» — così gli armeni chiamano il massacro perpetrato ai loro danni sotto l’Impero ottomano dal 1915 al 1918 —, a distanza di soli vent’anni si fosse già perso il ricordo.
Il 24 aprile è stato il centenario di quello che per lungo tempo è stato definito l’«olocausto dimenticato», la cui memoria, riemersa dopo decenni d’oblio, continua a esser fonte di tensioni. È accaduto solo pochi giorni fa, quando papa Francesco ha definito il Medz Yeghern «il primo genocidio del XX secolo», provocando una crisi diplomatica tra la Santa Sede e il governo turco, per il quale l’argomento è ancora un tabù, al punto da punire col carcere (art. 301 del codice penale turco) chiunque osi farlo pubblicamente.
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Il 2015 porta con sé due importanti ricorrenze simboliche: il centenario del 24 aprile cade a tre mesi di distanza dal 27 gennaio, settantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz, campo di sterminio simbolo della Shoah, l’Olocausto per definizione. Avvenimento che, ogni anno, commemoriamo all’insegna del «mai più», affinché simili atrocità non si ripetano mai in futuro. Proviamo allora a riflettere non su questo o quel genocidio, ma sul genocidio, inteso come fatto storico foriero di conseguenze politiche e spesso accompagnato dalla difficoltà di tramandarne la memoria alle nuove generazioni.
Oggi si tende a identificare il concetto di «genocidio» col significato di «grande massacro», come se il senso d’atterrimento suscitato da una tale operazione discendesse solo dalla spaventosa contabilità delle persone uccise. In realtà, i numeri c’entrano ben poco. Per comprendere l’esatta portata del crimine di genocidio, bisogna tenere in debito conto le intenzioni dell’aggressore, per il quale, diversamente da altre forme d’eliminazione di massa, lo sterminio è un fine e non un mezzo, la cui logica sottesa sta nella demonizzazione dell’«altro» su base ideologica. Ad esempio, il massacro di Nanchino (300.000 cinesi trucidati dai soldati giapponesi nel 1937–38) non fu un genocidio; il massacro di Srebrenica (8.372 musulmani di Bosnia uccisi dalle truppe serbo-bosniache nel 1995), invece, sì. L’autore del termine è Raphael Lemkin, giurista polacco d’origine ebraica che lo coniò nel 1944 per riferirsi non allo sterminio ebraico, bensì a quello armeno.
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Il neologismo fu poi accolto nel diritto internazionale con la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, adottata a New York il 9 dicembre 1948. Ma da allora la storia non s’è rivelata quella grande «maestra di vita», perché errori e orrori analoghi alla Shoah e al Medz Yeghern si sono ripetuti e continuano a ripetersi, quasi sempre nel colpevole silenzio di chi, quella Convenzione, l’ha redatta e firmata. Il Novecento è stato il secolo dei genocidî, non tanto per l’alto numero di sterminî pianificati ai danni di popolazioni inermi — tristemente avvenuti nell’arco di tutte le epoche —, quanto per la consapevolezza che il resto del mondo ha avuto del loro perpetrarsi.
Un caso su tutti è il genocidio dei Tutsi in Ruanda, dal 7 aprile a metà luglio del 1994: 500.000–1.000.000 di morti in appena cento giorni, durante i quali la comunità internazionale scelse di non fare nulla. Possiamo citare i casi di Kofi Annan, africano di nascita e funzionario ONU, la cui azione diplomatica si rivelò del tutto inefficace; di Madeleine Albright, allora ambasciatore USA alle Nazioni Unite, che si oppose all’intervento umanitario; di David Hannay, ambasciatore britannico alle Nazioni Unite, che fece pressioni affinché nella bozza di risoluzione del Consiglio di sicurezza sul Ruanda fosse evitata la parola «genocidio», perché questa avrebbe obbligato l’ONU a intervenire, cosa che nessuno aveva intenzione di fare; di François Mitterrand, presidente francese, cui viene attribuita l’affermazione: «Un genocidio in Africa non è così terribile come altrove». Tutti personaggi che non hanno mai pagato in termini di responsabilità morale o di carriera.
Discorso analogo vale per i genocidî dei khmer in Cambogia, della popolazione di Timor Est a opera degli indonesiani, o per quello tuttora in corso dei Rohingya in Birmania, che sembra non interessare molto neppure Aung San Suu Kyi. In tutti questi casi, la Storia non si limiterà a chiamare in causa gli autori di una violenza sistematica e annientatrice condotta da uomini contro altri uomini, ma inchioderà alle proprie responsabilità anche coloro che, quella violenza, non hanno fatto nulla per impedirla. Ma, come ha osservato Paolo Lepri sul Corriere, è difficile impedire che le tragedie si ripetano, se non si usano le parole giuste: il caso di Hannay ai tempi del Ruanda è paradigmatico.
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Tornando al genocidio armeno, il problema della memoria sta nell’ostinato rifiuto da parte della Turchia di riconoscerlo come tale. Ogni anno, con l’approssimarsi del 24 aprile, il nervosismo del governo turco si fa sempre più evidente, come dimostrato dalla reazione scomposta alle parole del papa. Eppure, anche solo da un punto di vista storico, avere il coraggio d’usare le parole giuste per definire il massacro di 1,5 milioni d’armeni (secondo le stime più accettate) per quel che è stato sarebbe importante proprio per aiutare la Turchia a normalizzare le sue relazioni con l’Armenia e col resto del mondo, visto il crescente riconoscimento che il Medz Yeghern sta ottenendo a livello internazionale. Diversamente, il rifiuto di fare i conti col proprio passato impedirà alla Turchia di costruire al meglio il proprio presente. Ma al contempo potrebbe offrire agli altri governi un alibi per continuare a non chiamar le cose col loro nome, per assolversi dal dovere di fare qualcosa per fermarle. Con buona pace di quel «mai più» ripetuto con forza ogni 27 gennaio.
* Scritto per The Fielder.