di Massimo Privitera
Che le materie prime, e la corsa all’accaparramento di queste, siano causa di conflitti non è elemento caratterizzante solo la storia degli ultimi decenni. Basti ricordare come l’appetibilità dei bacini della Ruhr sia stata fattore determinante per lo scatenarsi della guerre franco-prussiane e dei due conflitti mondiali, e di come la creazione di un mercato di scambio per carbone e acciaio sia stata uno dei prodromi di Europa unita. Tuttavia, il focus strategico delle attuali potenze mondiali, nella configurazione multipolare che le relazioni internazionali hanno sviluppato dopo il crollo dell’Unione Sovietica, si è spostato in maniera decisa dalla geopolitica alla geoeconomia, di pari passo con lo spostamento dei centri di potere dalle istituzioni politiche a quelle economico-aziendali. Se prima le relazioni estere di un Paese erano guidate da un movente nazionalista che affondava le sue radici in concetti quali identità e territorio, e che trovava la sua massima espressione nella loro strenua difesa, oggi sempre più, nel mondo iperconcorrenziale del consumismo globale, si è fatto strada il mantra della competitività economica a tutti costi. In questo nuovo scenario, uno Stato che vanti il monopolio di materiali fondamentali per la produzione di prodotti finiti può dire la propria, soprattutto se utilizza il contingentamento delle suddette come strumento di soft power. Ne è esempio il contenzioso tra Cina e Giappone su chi abbia giurisdizione sulle deserte, ma ricche di materie prime, isole Senkaku\Diaoyu. Il 7 settembre 2010 il capitano cinese Zhan Qixiong venne arrestato da alcuni ufficiali giapponesi dopo la collisione tra la sua sciabica e il guardacoste. La detenzione fu subito contestata dalle autorità cinesi, ma più della diplomazia poté l’economia, con il governo giapponese costretto al rilascio del prigioniero dopo lo stop alle forniture di Terre Rare, fondamentali per la produzione di apparecchiature elettroniche, disposto dalla Cina.
In questo nuovo scenario, che ruolo sta avendo l’Europa? Si potrebbe partire con l’evidenziare come la geopolitica sia passata di moda nel Vecchio Continente dopo il secondo conflitto mondiale. Questo approccio ha portato ad una certa incapacità di prevedere gli assetti globali e di influire sulle loro dinamiche. Di certo, per una potenza globale che così tanto dipende dall’approvvigionamento esterno, questa attitudine non conduce a felici approdi.
Tuttavia, nel 2010, si è tentato di fare un punto sulla situazione, in modo tale da analizzare in maniera precisa debolezze e virtù dell’Europa in termini di materie prime. La sezione ad hoc del Gruppo di Lavoro per l’Approvvigionamento di Materie Prime, presieduta dalla Commissione Europea, ha così pubblicato un Report dal titolo “Critical raw materials for the EU” che analizza le problematiche di approvvigionamento di 41 materie prime indispensabili per l’economia dell’Unione
Secondo lo studio, la scarsità di una risorsa non è di per sé un fattore sufficiente per determinarne la criticità all’interno dell’orizzonte temporale analizzato. Altrettanta rilevanza hanno i cambiamenti nell’assetto geopolitico e geoeconomico che impattano su offerta e domanda. Questa combinazione di fattori determina la difficoltà di approvvigionamento per uno specifico materiale, che, unita all’importanza di quest’ultimo nei processi produttivi, permette di disegnare una mappa di criticità completa per le materie prime analizzate. Come si può notare in figura, nel riquadro in alto a destra sono riportate quattordici materie prime caratterizzate da un mix di rischio di approvvigionamento e di importanza economica sufficientemente esplosivo da renderle critiche. Non sorprende sapere che, di questi quattordici materiali, ben dieci ricadono sotto un quasi-monopolio da parte della Cina. Solo per Tantalio, Niobio, Metalli del Gruppo del Platino, e Cobalto, si ha una situazione di mercato simile ma con proprietari differenti.
La situazione si fa ancora più intricata se si guarda all’analisi delle prospettive di consumo di tali materiali in rapporto alla produzione attuale. Per tutti i materiali si stima un aumento, ma per alcuni specifici, come ad esempio l’Indio e il Gallio, il consumo stimato per il 2030 ammonta a più di tre volte la produzione attuale. Questo non può far altro, se le condizioni di contesto tecnologico, economico, e politico, rimangono le stesse, che aumentare il potere contrattuale dei detentori di tali materie prime (nel caso specifico la Cina), che si tradurrà automaticamente in un maggior peso nello scacchiere politico internazionale.
Volendo, però, nel tentare ora un’analisi di questo meccanismo di traduzione del quasi monopolio in crescita economica e acquisizione di autorevolezza geopolitica, non si può non sottolineare come diverse situazioni nazionali abbiano portato a conseguenze profondamente differenti. Per semplicità si farà il confronto tra Cina e Repubblica Democratica del Congo (grande produttore di Cobalto e altre materie prime). Nel primo caso il monopolio su risorse critiche si è tradotto in grande opportunità economica e in crescente influenza politica. Nel secondo caso, si è avuto l’ennesimo episodio di “Maledizione da risorse”. Il PIL pro-capite del Congo è decresciuto del 3% annuo dal 1970 al 2005, ed è attualmente uno dei più bassi al mondo, nonostante l’abbondanza di materie prime. Il sostanziale aumento che ha fatto registrare negli ultimi anni è dovuto principalmente all’apporto di capitale estero, riconducibile in buona parte all’aiuto prestato dalla Cina nella costruzione di infrastrutture. La differenza sta nella presenza dello Stato nell’economia, e, più in generale, nel corretto funzionamento della macchina statale. Il fatto che la Repubblica Democratica del Congo si situi al 154° posto in termini di Indice di Percezione della Corruzione (IPC) può ben spiegare come gli eventuali profitti da materie prime prendano una strada ben diversa da quella del benessere comune. Questa situazione è stata fomentata dai Paesi occidentali che, come denuncia l’ONG Global Witness, attraverso società anonime privano i cittadini congolesi di un ammontare annuo stimato in oltre un miliardo di dollari: il doppio del budget statale per economia e sanità.
Tuttavia, questo approccio di lungo corso da parte dei Paesi occidentali ha avuto profondi effetti collaterali. Sebbene abbia permesso di accaparrare risorse a buon mercato sulla pelle di chi ha subito le conseguenze negative di queste pratiche di business, di certo non ha aiutato ad intessere relazioni amichevoli e sta portando gli Stati africani a perseguire un modello di sviluppo molto più simile a quello cinese. Sempre più la Cina, che, insieme a India e Stati del Golfo, si sta affermando come uno dei principali investitori in infrastrutture africane, è vista come un esempio a cui tendere. Una sorta di Piano Marshall in chiave africana. Illuminante a riguardo è il TED talk della zambiese Dambisa Moyo dal titolo “Is China the new idol for emerging economies?”.
In questo contesto di investimenti mirati, solo gli Stati Uniti tengono botta, mentre l’Unione Europea, divisa al suo interno, stenta a comprendere quanto poco potrebbe se, invece di perseguire una reale e equa integrazione, perdesse la sua unità. E’ stata la debolezza politica europea, infatti, a permettere alla Russia, in cerca di una rivalsa dopo i bui anni filo-occidentali di Yeltsin, di annettere la Crimea senza grossi intralci, ed è stata la dipendenza dal gas russo a caratterizzare addirittura l’accadimento in maniera positiva, visto il risparmio di 20 miliardi di euro che si avrà facendo passare il South Stream su terra e sul fondale bulgaro del Mar Nero, invece che sul fondale più profondo in acque turche.
Se un’analisi eziologica è stata fatta formalmente, come detto, anche a livello comunitario, non è ben chiaro quale sia la direzione politica che l’Europa ha deciso di intraprendere. Ad esempio, dopo l’intervento statunitense in Libia, l’Unione Europea (ma più nello specifico l’Italia), che, certamente, più del suo partner d’oltreoceano doveva vedere nel dopo Gheddafi un momento cruciale per le sue sorti energetiche, si è dimenticata di favorire una transizione stabile e pacifica in un Paese in cui le eredità tribali hanno sempre minato la strutturazione di uno Stato autorevole ed efficiente, e che ha diminuito la propria produzione petrolifera da 1,5 milioni a 250000 barili al giorno.
Tuttavia, il Report al quale si è accennato in precedenza detta alcune buone pratiche, e vale la pena di analizzarne alcune:
- considerare di perseguire iniziative di risoluzione di contenziosi a livello WTO in modo tale da includere in queste iniziative più materie prime importanti per l’ industria UE; tali azioni possono far nascere importanti casi giuridici fintanto che le regole GATT esistenti mancano di chiarezza e sono limitate nello scopo;
- affrontare senza riserve le consultazioni con i Paesi terzi le cui politiche causano distorsioni nel mercato internazionale delle materie prime, in modo tale da scoraggiare certi provvedimenti e richiedere una maggiora aderenza alle forze di mercato;
- incentivare il riciclaggio di prodotti End of Life (alla fine del Ciclo di Vita), e migliorare organizzazione, efficienza, e logistica, della catena di riciclaggio;
- incentivare la ricerca di possibili sostituti delle materie prime attualmente utilizzate nelle produzioni tecnologiche.
Se le prime due raccomandazioni hanno una valenza di portata relativa, in quanto una visione realista porta a pensare che in periodi di crisi le istituzioni internazionali cedono il passo agli interessi specifici degli Stati, di contro le altre hanno ragion d’essere, in quanto permetterebbero di svincolarsi in parte da quella dipendenza che oggi caratterizza l’Europa, e potrebbero benissimo essere estese a materiali, come quelli energetici, la cui sostituibilità è più che provata.
* Massimo Privitera, MSc in European Economy and Business Law (Università di Roma, Tor Vergata)
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