È il vincitore del Premio Viareggio, nella sezione Narrativa, il legal thriller Giallo d’Avola (pagg. 331, Sellerio) del giornalista e scrittore Paolo Di Stefano, che abbiamo intervistato di recente. È la storia vera di un clamoroso errore giudiziario che si snoda tra il 1954 e il 1961 in terra sicula, tra i monti Iblei, presso una masseria in contrada Cappellani, nel territorio di Avola.
Alba del 6 ottobre 1954: come ogni giorno il mezzadro Paolo Gallo si alza per governare gli animali, ma non rientra più: macchie di sangue e un berretto in terra, “u tascu”, sono le uniche tracce che lascia di sé. «L’ammazzaru, l’ammazzaru, u dìssiru e u fìciru» grida piangendo la moglie dello scomparso, Cristina Giannone, e anche la natura, di virgiliana memoria, partecipa a quel grido: «Tremarono i peri selvatici, gli ulivi, i carrubi, i fichi, le pale dei fichidindia e i lentischi, e tremarono leggermente anche le gambe dei montanari, i quali pure erano uomini che non si lasciavano impressionare.»
Il maresciallo Luminoso, incaricato di svolgere le indagini, senza troppa fatica, si fida di quel grido e in carcere finiscono subito il fratello di Paolo, Salvatore e suo figlio Sebastiano. Tutti sapevano che tra le famiglie di Paolo - detto “u Sacchiteddu” per l’aspetto di una bisaccia vuota – e quella del fratello non correvano buoni rapporti, per usare un eufemismo: abitavano nella stessa casa, divisi da un muro, ma litigavano spesso e violentemente, liti che spesso finivano con denunce e querele.
Pur senza il ritrovamento del cadavere, i due Gallo restano in carcere, ma «le voci non finivano mai di girare», anche i bambini fantasticavano, temendo che un mostro di notte scendesse dalla montagna. A nulla valgono l’acribia e la perizia degli avvocati del foro di Siracusa, Romano e Fillioley, di fronte all’omertà creata con la paura, al silenzio, alle dichiarazioni poi ritrattate di chi aveva visto il morto Paolo Gallo.
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Alla fine sarà premiata la tenacia dell’avvocato lentinese Salvatore Lazzara e del giornalista de «La Sicilia» Enzo Asciolla, la loro volontà ostinata di cercare la verità, attraverso una coraggiosa immersione in un’Italia arcaica e feudale, la cui ignoranza aveva dei risvolti talvolta grotteschi, contemporanea all’Italia del boom economico e della modernizzazione. Tra le parole e soprattutto i silenzi di questo romanzo il lettore ritroverà la Sicilia di Verga e di Pirandello, ma soprattutto quella di Sciascia, del rigore conoscitivo dell’indagine, che Di Stefano condivide con lo scrittore di Racalmuto.
Originalissimo ibrido di romanzo e inchiesta, di verità e finzione, condotto con perizia filologica fondata sulla lettura di atti giudiziari e sulle testimonianze orali, illumina tanto buio della giustizia italiana, perché, come osava scherzare qualcuno, «se sei innocente, non ci hai speranze, ma stai tranquillo che se l’hai ammazzato davvero, i minchioni ti fanno uscire presto».
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