Giancarlo Sangregorio, scultore
Giancarlo Sangregorio – di Luca Pietro Nicoletti per Milano Arte Expo - Feci visita per la prima volta allo studio di Giancarlo Sangregorio in un freddissimo pomeriggio di maggio del 2012. Conoscevo solo il nome e poche opere sue, soprattutto quelle della monografia di Marco Rosci e i disegni dell’apposita monografia di Martina Corgnati, pubblicate entrambe dalla Libreria Bocca di Milano. Più volte, poi, avevo visto sbucare una sua piccola scultura fra i libri nella vetrina della Galleria Vittorio Emanuele, o negli scaffali in cui Giacomo Lodetti mischiava libri e opere d’arte. Erano anni a ridosso della collocazione di alcune sue grandi sculture al comune di Somma Lombardo, e non poteva passare inosservato il manifesto di quell’iniziativa in cui campeggiava il monumentale Uniti da un iroko del 1987, una scultura tanto misteriosa quanto pregnante del suo lavoro, con un titolo così insolito ed esotico da non poter essere dimenticato. Avrei familiarizzato solo qualche anno più tardi, invece, con il suo profilo nel primo volume dei Ritratti di studio scritto da Stefano Soddu e accompagnato dalle fotografie di Enrico Cattaneo. >
Giancarlo Sangregorio, Uniti da un Iroko, 1987, marmo di Carrara e legno di iroko, L cm 560x170x220
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Quando presi il treno per Sesto Calende per fargli visita, dunque, avevo un’idea, per quanto non precisissima, del lavoro di questo scultore ma, come troppo spesso succede quando si affrontano gli artisti più recenti, mi limitavo alle fotografie e alla piccola scultura: un surrogato un po’ scialbo, insomma, per comprendere un modo di lavorare che ambisce ai grandi spazi, alle piazze, e che trova nel monumento la sua autentica dimensione.
Avevo in animo, quando mi recai da lui, un progetto di interviste-conversazioni con gli scultori milanesi della sua generazione, in modo da costruire un documento corale che desse testimonianza di una stagione dell’arte a Milano e di una certa idea della scultura. Non voleva essere un nuovo Autoritratto sulla falsariga di Carla Lonzi, anche se l’idea del montaggio polifonico dei vari interventi mi affascinava: più che un flusso di coscienza, però, il mio sarebbe stato un accostamento di testimonianze mescolate fra loro, che sottolineasse i motivi ricorrenti, le idee in comune fra artisti fra loro linguisticamente lontanissimi. Era un progetto molto sofferto, continuamente rimeditato nella ricerca di una struttura sensata e coerente per quei contenuti, o di quelli che sarebbero dovuti essere i suoi contenuti. Non ne feci più nulla, poi, poiché diversi degli scultori che avevo preso in considerazione, tutti di quella generazione e tutti generalmente di area astratto-informale, si erano congedati dalla vita terrena prima che potessi entrare in contatto con loro. Di quell’esperienza, però, mi rimangono le registrazioni della frammentata, divagante ma non banale conversazione con Giancarlo Sangregorio.
Giancarlo Sangregorio, Grandi equilibri, 1968, Granito del Boden e legno, H cm 210
Non è stato facile intervistarlo. Ci sono artisti, infatti, con un’innata attitudine meta-riflessiva che richiedono pochissimo sforzo all’intervistatore, perché il discorso segue una sua concatenazione ed è già pronto, o quasi, per essere trascritto così come la voce esce dal registratore. Poi ce ne sono altri, invece, il cui racconto salta continuamente da un discorso a un altro, che intendono la conversazione come una vera e propria chiacchierata, e che richiedono un intervento maieutico per indirizzarne il discorso. In generale, però, gli artisti vanno per loro conto: per quanto si cerchi di dirottarne il discorso con domande o considerazioni, proseguono per la loro strada per arrivare a quello che per loro è il nocciolo della questione. La rarefatta oratoria di Giancarlo Sangregorio andava in questa seconda categoria: tornai a casa, dopo qualche ora, dopo aver conosciuto Francesca, la giovane assistente che ne segue da anni l’attività, con un certo numero di frammenti verbali da ricollegare in una sequenza logica e astratta. Eppure in quei frammenti non mancavano delle frasi concise come delle improvvise folgorazioni. Mi rimase molto impresso quando, verso la fine del nostro incontro, Giancarlo Sangregorio mi disse che lui non si sentiva uno scultore, e che anzi non si era mai sentito tale: piuttosto si sentiva un architetto. La casa in cui mi aveva ricevuto, una grande villa appena fuori da Sesto Calende, era stata progettata da lui: aveva dato disposizione agli operai di come suddividere le stanze, di cui aveva pianificato la pianta e gli alzati, seguendo poi personalmente i lavori. Tuttavia, di fronte a tanta scultura intagliata con virile furore, mi sarebbe parso scontato dire che Sangregorio era scultore nel pieno senso della parola: una scultura “scolpita”, come dice un mio caro amico pittore. Al tempo stesso, però, questa sua ricerca di forme, in cui pure era una concezione architettonica e progettuale (lo stesso Uniti da un Iroko, in fondo, reinventava il principio strutturale basilare dell’architettura, il portale, con tutti i suoi significati simbolici e costruttivi), aveva una energia, un vigore che poteva persino fare contrasto con la figura minuta e un po’ mingherlina del suo autore. Quando lo conobbi era già molto anziano, e i tempi delle grandi imprese di intaglio della pietra ollare erano archiviati nel passato; ma anche nelle foto d’epoca Sangregorio era un ometto piccolo di statura e di ossatura a confronto con i massi che sfidava traendone le proprie forme. Egli, infatti, apparteneva a quella razza di scultori che avevano imparato il mestiere da autodidatti direttamente nelle cave (per lui quelle della Valdossola), prima di approdare in accademia. Per lui, dunque, la taglia diretta della pietra e del marmo era un’esperienza diretta che poi sarebbe stata dirottata e guidata dalla lezione di Marino Marini a Brera. Non a caso, infatti, il lavoro di Giancarlo Sangregorio, secondo Luciano Caramel, «è della razza degli antichi lapicidi». Questo, secondo lo studioso, darebbe conferma del fatto che la scultura, richiamando Baudelaire, sia un’arte dei primitivi, cioè un’arte duratura, in cui è insita un’inevitabile arcaicità, fatta di un incontro-scontro con la natura che lo sovrasta, ma che la mano umana cerca in qualche modo di dominare. Caramel distingue infatti fra il «dar forma propria e nuova alla materia», tipica del nostro scultore, e il «modularla, cesellarla, accarezzarla».
Giancarlo Sangregorio, Serse e i greci, 1991, Travertino rosso di Persia e marmo bianco scintillante del Brasile, H cm 160x50x50
Il percorso fino al punto di cui parla Caramel, però, sarebbe stato lungo e travagliato: stupisce un po’, oggi, constatare che le sue prime mostre, fra 1951 e 1953, furono fatte insieme al compagno di studi Alik Cavaliere, e che entrambi avevano preso quella via del Realismo che gli aveva garantito l’approvazione di Mario De Micheli e Raffaele De Grada. È quella fase che Marco Rosci, nella bella monografia su questo scultore (Marco Rosci, Sangregorio. Sculture 1943-1999, Milano, Edizioni dell’Aurora-Libreria Bocca, 1999) faceva oscillare, in un apposito capitolo, fra La figura romanica e la figura realista. Romanico, secondo Rosci, è Sangregorio quando si rifà al Martini degli anni Trenta autore de La sete: quelle sculture, insomma, in cui la figura è sbozzata con brutalità, quasi fosse rimasta imprigionata nella pietra, come certi calchi degli antichi romani rimasti sepolti sotto le macerie di Pompei. Sarebbe stata una sperimentazione di breve durata, seguita immediatamente da quella che Rosci definisce L’inversione della forma, mettendo a fuoco quel passaggio cruciale avvenuto fra il 1959 e il 1963, quando si verifica «il processo della fusione dall’oggetto figurale oggettivato all’inversione della sua intima struttura interno-esterno, ribaltando e come sviscerando l’intima essenza, il “negativo” della struttura plastica». È la fase prettamente informale della sua ricerca, «che ribalta ulteriormente il discorso plastico conferendo un corpo tridimensionale alla struttura interiore della forma». Alla forma piena, insomma, Giancarlo Sangregorio oppone la struttura che evoca il volume nei limiti esterni, ma contrapponendovi delle cavità profonde, come fosse lo scheletro della scultura, o una sua consumazione organica al punto da averla ridotta a un frammento. Ricordo uno scaffale di questi bronzi, in uno dei tre studi dell’artista a Sesto Calende: erano sculture laceranti, di fronte a cui poteva venire in mente il nome di Minguzzi (ma con più poesia) o, ripensandoci ora, quella della Richier.
Giancarlo Sangregorio, Sequenza orizzontale, 1993, Marmo di Candoglia e legno di noce, H cm 190x40x20
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Erano certamente queste, in ogni caso, le opere presentate alla 58° mostra della milanese Galleria dell’Ariete, nel gennaio 1960, presentata da Emilio Tadini, allora fra i critici più attenti agli sviluppi della Nuova Figurazione in uscita dal “manierismo” in cui era caduto molto Informale coevo. Emilio Tadini svolgeva anzi alcune considerazioni sul percorso di rapida maturazione dell’artista dalla figurazione in senso monumentale al figurale, ponendosi il problema del segno del suo «cristallizzarsi come simbolo psicologico». Lo scrittore comprende chiaramente che il punto di passaggio essenziale era dovuto anche a un cambio di materiale: «abbandona la pietra, forse perché gli propone troppo direttamente, in questo momento, il peso di un pieno inestricabilmente aggregato. Incomincia a lavorare componendo le strutture, frammento per frammento, con elementi di legno e metallo, cui alla fine la fusione in bronzo darà una stabilità più organica».
Giancarlo Sangregorio, Vento freddo, 1963, Legno di noce, H cm 106
Tadini, insomma, leggeva il processo creativo per spiegare la novità espressiva: l’intaglio avrebbe portato Sangregorio a una figura piena, massiccia, mentre l’assemblaggio di pezzi e di frammenti gli consentiva un’articolazione più complessa della figura: «lo spazio è integrato direttamente alla consistenza della figura. E questa consistenza non è più risolta nella solidità (e nelle avventure) di una superficie esteriore: si stabilisce piuttosto nelle giunture più intime, nelle articolazioni più originarie di una nuova figura». Il problema formale, tuttavia, serviva a costruire una nuova modalità di racconto: non era un semplice cambio di tecnica e di procedimento, perché questa era necessaria a proporre contenuti più problematici, affinché «l’oggetto possa risolversi interamente nel suo significato». E il problema è sostanzialmente esistenziale: non è il solo gesto impresso sulla materia, ma una figurazione che vuole essere «anteriore ad ogni gesto, disponibile alla vitalità nella drammatica tensione dei suoi elementi costitutivi». Alla fine di questo percorso, però, era inevitabile un ritorno alla monumentalità, «ma una monumentalità di tipo completamente nuovo, definita dallo scatto di una struttura interamente intima e insieme pronta a spiegarsi in una corposità solidamente costruita». Deve essere di questo genere la “scultura in pietra” alta 85 cm in coda all’elenco delle opere esposte, che forse marca l’inizio di una nuova stagione, quella più connotata e conosciuta del lavoro di Giancarlo Sangregorio.
Da qui in avanti, infatti, comincia quella che Rosci, nel suo racconto cronologico dell’opera di Sangregorio, definisce La simbiosi della materia, in omaggio alla monografia dedicatagli da Luigi Carluccio nel 1978. Parole d’ordine del suo vocabolario scultoreo, da ora innanzi, diventeranno «incontro, incastro, abbraccio, compenetrazione fra pietre e legni soprattutto, ma anche fra granito e pietra ollare». Tutto questo significava per Rosci, in poche parole, una «padronanza assoluta dell’intimità organica delle materie e in parallelo del proprio immaginario formativo». Lo studioso novarese identificava infatti il filo conduttore della sua ricerca in «una gigantesca variazione su questo principio dell’organismo struttura interiore dei vari materiali costitutivi della forma scultorea, delle sue “radici” di volta in volta rielaborate per riaggregarle e riplasmarle in nuove entità e realtà spaziali, creando un panorama plastico di eccezionale ricchezza e varietà».
Giancarlo Sangregorio, Fortezza, 1999, Alabastro e graniti scuri su base in legno, H cm 40x30x40
Cominciavano dunque le prime compenetrazioni fra materie diverse, gli incastri tra pietre e legni, o fra pietre e altri materiali (persino il vetro all’inizio degli anni Novanta), come in un grande amplesso archetipale fra materie che acquistavano una nuova vitalità proprio grazie alla loro compenetrazione di matrice remotamente surrealista. Per fare questo, uscendo dal dibattito fra figurazione e astrazione, secondo Caramel egli «coglie la potenzialità della varia articolazione di forme desumibili dal cubismo e dai suoi sviluppi, nonché dell’azzeramento semantico dell’astrazione più rigorosa: non cade però nella gratuità di tanto postcubismo nostrano né accoglie la scansione purista di forme autosufficienti; e neppure si lascia attrarre da dirette implicazioni nei processi produttivi, mirando a funzionalità meno provvisorie». Indubbiamente, accanto alla lezione cubista, la sua diventa allora una lunga marcia verso un certo primitivismo.
Non è privo di significato, infatti, ricordare accanto allo scultore il collezionista di scultura africana che ha viaggiato acquistando le opere di sua proprietà direttamente sul luogo, anche nei posti più sperduti del continente nero. Sergio Dangelo, anzi, in una sua recente testimonianza ricordava una visita a Sesto Calende in compagnia di Alessandro Passarè, il medico collezionista di arte contemporanea folgorato dal “mal d’Africa” con una passione divorante. Giunti sulla collina, Dangelo ricorda delle sagome umane in controluce sulla soglia di casa: non erano uomini, ma silenti sculture lignee che vegliavano come custodi sull’uscio dell’abitazione.
Non sono molti gli artisti che collezionano arte extraeuropea con la sistematicità con cui Giancarlo Sangregorio ha riunito la sua collezione, fin quasi ad amarla più delle sue stesse opere. Era inevitabile, dunque, che attingesse da queste una ruvida gravità, una suggestione di primordio che ne avrebbe dovuto permeare tutto il lavoro: la scultura poteva così ricondurre alle origini sia del linguaggio sia della sensibilità umana e al suo immaginario originario. Proprio questo distingueva il suo lavoro “da architetto” che lavora il marmo da altre istanze della scultura astratto-geometrica che Sangregorio stesso criticava, nel nostro incontro, per un eccesso di dogmatismo: la geometria degli spigoli vivi doveva essere troppo assertiva per lui, e non gli sembrava congeniale al suo sbozzo grosso e ruvido delle forme. D’altra parte, aveva anche dichiarato pubblicamente di volersi staccare dal dibattito attivo e dalle sue derive. Nella breve nota biografica (verosimilmente compilata da lui stesso) introduttiva alle due pagine dedicategli nel catalogo di Alternative Attuali 3, la grande mostra-saggio organizzata da Enrico Crispolti al Forte Cinquecentesco dall’Aquila nel 1968, si legge che Sangregorio «pur avendo lo studio a Milano e partecipando attivamente alle polemiche nel clima del dopoguerra, ritorna a cercare i blocchi per le sue sculture nelle cave o lungo i torrenti». Le montagne dell’Ossola, insomma, gli erano familiari, e questo diventava come un “ritorno a casa”. Inoltre, «benché segua in quegli anni [i secondi anni Cinquanta] con interesse profondo le proposte dell’arte informale e sia soprattutto attratto dal clima da cui quelle proposte derivano, continua a elaborare gli elementi originari del proprio linguaggio».
Giancarlo Sangregorio, Lo Zigo Zago, 1982-88, Marmo di Crevola d’Ossola, H cm 265x120x120
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La critica si è spesa con slancio su questa stagione del suo lavoro, tanto che varrà la pena, un giorno, ripercorrere una storia ragionata della fortuna critica di Giancarlo Sangregorio. Per il momento basta ricordare uno dei più intelligenti interpreti della scultura contemporanea, Giuseppe Marchiori, che nel 1967 scrive la prima monografia importante sul lavoro del nostro artista. A Marchiori non interessa affatto, o quasi, la preistoria di Sangregorio: ogni artista, infatti, si «manifesta completamente» solo in determinati momenti della sua carriera, e di questi bisogna tenere conto a prescindere dallo svolgimento filologicamente storico della loro carriera. Il critico veneziano era stato a Sesto Calende in visita alla villa dello scultore, ricordando le sculture sparse nel giardino, ma mettendo subito in guardia dal lasciarsi coinvolgere dal fascino di questo rapporto fra la scultura e il paesaggio: voleva prevenire la tentazione romantica di farsi sovrastare dalla natura perdendo di vista lo specifico valore della scultura in sé. Sangregorio, infatti, è vicino per lui allo “spirito della cava”: «ai blocchi di pietra», scrive, «si associa il pensiero di un primordio che va riscoperto nelle sue forme più autentiche, come un fatto vitale di origini ritrovate nella natura, spesso secondo la legge del caso o, talora, adattando l’immagine della materia, appena corretta nel suo esterno e scavata sulla superficie, secondo un tracciato grafico che ne modifica l’aspetto e la struttura».
Non avevo capito, in quel freddo pomeriggio di maggio, cosa intendesse Sangregorio quando mi disse che nella scultura cercava la “luce”. Mi sarebbe stato più comprensibile se avesse fatto un tipo di scultura derivante da Medardo Rosso, o con un modellato vibrante e impressionista. Solo ora, a distanza, comprendo quale fosse la “luce” che secondo lui si sprigionava dalla materia. Me lo ha rivelato il breve saggio di Caramel, che, non a caso, è stato il primo e più acuto interprete moderno dell’opera di Rosso. Le sue sculture, scriveva, «reagiscono al variare della luce lungo il corso del giorno e della notte, introducendo ulteriori fattori di mobilità che non l’assolutezza dei volumi in pietra si coniugano, contribuendo ad effetti di sintesi degli opposti, da sempre a Sangregorio cari».
Luca Pietro Nicoletti
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Giancarlo Sangregorio, Bisanzio, 1992, Pietra ollare, granito verde d’Africa, travertino rosso di Persia e alabastro del Pakistan, H cm 55
MOSTRE PERSONALI di Giancarlo Sangregorio ANNI 50-60
1952
Galleria La Colonna, Milano
1953
Galleria La Bussola, Torino;
Galleria Il Pincio, Roma
1954
Galleria La Casa della Cultura, Livorno
1955
Galleria del Sole , Milano
1956
Galleria Pater, Milano
1959
Galleria dell’Ariete, Milano
1960
Galerie Smith, Bruxelles
1961
Galerie Gunar, Duesseldorf;
Galerie Mueller, Stoccarda;
Galleria Il Canale, Venezia
1963
Galleria Levi, Milano;
Galerie Mueller, Stoccarda
1965
Galleria Flaviana, Locarno;
Galerie Handschin, Basilea;
Koelnischer Kunstverein, Koeln
1966
Kunstverein, Freiburg im Br. (D);
Galleria Blu, Milano;
Galleria Stefanoni, Lecco
1967
Galleria Il Salotto, Como;
Galleria Cadario, Roma
1968
Galleria Blu, Milano;
Galerie Brechbuhl, Grenchen (CH);
Galleria Cadario, Roma
1969
Galerie Raeber, Lucerna;
Studio Sant’Andrea, Milano, “Retrospettiva 1960-70”;
Galleria Il Cavalletto, Brescia
MOSTRE PERSONALI di Giancarlo Sangregorio ANNI 70-80
1970
New Smith Galerie, Bruxelles;
Galerie Numaga, Auvernier (CH)
1972
Galerie Regio, Freiburg im Br. (D);
Knoll International, Parigi
1973
Galleria Narciso, Torino;
Galleria Paul Facchetti, Zurigo
1974
Galleria del Milione, Milano;
Galleria Stefanoni, Lecco
1975
Galerie Chutz, Salothurn (CH);
Galleria del Milione, Milano;
Museo della Ceramica, Cerro-Laveno (VA)
1976
Galerie Numaga, Auvernier (CH);
Kunstmuseum, Osnabrueck;
Westend Galerie, Francoforte (D);
Galleria Hella Nebelung, Duesseldorf
1977
Padiglione d’Arte, Dresdnerbank, Freiburg im Br. (D);
Kunstverein, Laupheim (D);
Galleria Il Canale, Venezia
1978
Galleria Lanza, Intra;
Galleria Due Torri, Bologna;
Galerie Dietrich, Monaco di Baviera
1979
Staedtisches Museum, Goettingen (D);
Galleria Blu Art, Varese;
Galleria Peter Coray, Lugano
1980
Galerie Jaeggi, Basilea;
Galleria Il Canale, Venezia
1981
Galleria Milano, Milano
1982
Ado Gallery, Bonheiden (Belgio);
Galleria Il Salotto, Como;
Galleria Dossi, Bergamo;
Galleria del Milione, Milano;
Galleria Vismara, Milano;
Galerie J. L., Ostenda (Belgio);
Galerie Regio, Freiburg im Br. (D);
Galleria Radice, Lissone (Milano)
1983
Galleria Narciso, Torino;
Studio D’Ars, Milano
1984
Civico Centro di Cultura, Luino
1985
Le Fornaci Ibis, Cunardo (VA)
1986
Musei Civici di Villa Mirabello, Varese;
Kunsthaus, Grenchen (CH);
Comune di Sesto Calende, “Retrospettiva dal 1943 al 1959”
1987
Galerie Doenisch Seidel, Kleve (D)
1988
Civica Galleria d’Arte Moderna, Gallarate;
Comune di Milano, Corso Vittorio Emanuele, “I percorsi della scultura”;
Galleria d’Arte AZ, Milano
MOSTRE PERSONALI di Giancarlo Sangregorio ANNI 90-2000
Giancarlo Sangregorio, Contra Punctum, 1996, Alabastro, H cm 40x20x20
1990
Casa Morandi e Galleria Il Chiostro, Saronno;
Galleria Pro Arte, Lugano
1991
Arpitesca-la Rana d’Oro, quattro mostre nel territorio di Casalbeltrame (NO)
1992
Galleria Melesi, Lecco
1993
Spazio ArteForma, Melzo (Milano);
Galleria Bludiprussia, Albisola, (Savona)
1994
Fondazione Mudima, Milano;
Galleria Bludiprussia, Albisola, (Savona);
Galleria San Carlo, Milano
1995
Microbrera Gallery, Milano
1996
Galleria Lorenzo Lanza, Intra;
Oldfashion, Palazzo e giardino della Triennale, Milano
1997
Palazzo Sertoli, Galleria del Credito Valtellinese, Sondrio;
Panicale (Perugia): Elogio della scultura: Giancarlo Sangregorio Opere 1967-1997;
Galleria San Carlo, Milano
1998
Galleria Studio Centenari, Piacenza: “Dove sta di casa la scultura?”;
Galleria Il Raggio, Lugano
1999
Sangregorio-Sculture 1943-1999, Torre Colombera, Gorla Maggiore, Varese;
Galleria Bludiprussia, Albisola, Savona
2001
La pietra Levitante, Galleria San Carlo, Milano;
Giancarlo Sangregorio, Frankfurter Westend Galerie, Francoforte
Dalla pietra levitante al collasso, Chiostro di Voltorre, Gavirate, Varese
2002
Disegni e sculture dal 1994 al 2002, SpazioBoccainGalleria, Milano
2003
Sculture sul Ticino, Comune di Sesto Calende, Spazio Cesare da Sesto
2004
Sculture Pannelli Cellulose e altro, Galleria Scoglio di Quarto, Milano;
Geomantica- Impronte e Poesie, Galleria d’arte Narciso, Torino;
Geomantica, Galleria Bludiprussia, Albisola, Savona
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Breve bibliografia
Giancarlo Sangregorio, scultore – laboratorio
Raffaele Monti, Sangregorio sculture-studi-disegni-litografie 1958-59, A. Salto Editore, Milano, 1959
Gillo Dorfles, Sangregorio – sculture, cat.mostra Kunstverein, Freiburg im Br., 1966
Giuseppe Marchiori, Sculture di Sangregorio, Edizioni Del Milione, Milano, 1967
Luigi Carluccio, Sangregorio Simbiosi, Edizioni Del Milione, Milano e Edition Raeber, Luzern, 1972
Robert Th Stoll, Sangregorio Skulpturen, Raeber Edizioni, Lucerna, 1979
Luciano Caramel, Sangregorio e la sintesi degli opposti, collana “Maestri Contemporanei”, Vanessa Edizioni d’Arte, Milano, 1984
Raffaele De Grada, Giancarlo Sangregorio, opere dal 1943 al 1959, cat. mostra, comune di Sesto Calende, 1986
Silvio Zanella-Raffaele De Grada, Giancarlo Sangregorio, antologica 1943-1987, catalogo mostra Civica Galleria d’Arte Moderna di Gallarate, 1988
Marco Rosci, Sangregorio, Premio biennale “La Rana d’Oro”, Casalbeltrame (Novara) 1991, Gallo Arti Grafiche, Vercelli, 1991
Enrico Baj-Roberto Sanesi, Giancarlo Sangregorio-Impronte, L’Agrifoglio Edition Milan-London, 1993
Flaminio Gualdoni, Giancarlo Sangregorio-Opere 1966-1996, cat.mostra Palazzo Sertoli, Sondrio, 1997
Marco Rosci, Sangregorio-sculture 1943-1999, Edizioni dell’Aurora, Verona, 1999
Martina Corgnati-Federico Masedu, Sangregorio-Disegni 1945-1999, Edizioni Bocca, Milano, 1999
Martina Corgnati, La Pietra Levitante, Edizioni dell’Aurora, Verona, 2000
Aldo Tagliaferri, Sangregorio-Sculture sul Ticino, edizioni Lavrano, 2003
Giancarlo Sangregorio-Francesca Marcellini, Geomantica, impronte e poesia, Edizioni dell’Aurora, Verona, 2003
Martina Corgnati, Sangregorio 1983-2003, Edizioni Bocca, Milano, 2004
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MAE Milano Arte Expo [email protected] ringrazia Luca Pietro Nicoletti per il testo sul grande scultore italiano e la Fondazione Giancarlo Sangregorio – ne consigliamo la visione del sito: http://www.giancarlosangregorio.it/index.htm - per le immagini delle opere.
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