Gigolo (1978) di David Hemmings è un film bizzarro. Costantemente in bilico tra seriosità - soprattutto quella del viso di David Bowie - e grottesco, scorre via con una certa velocità, come un muto a cui sia stato apposto un sonoro posticcio: splendido (soprattutto per la presenza dei Manhattan Transfer), questo rimane comunque un po' scollato. La Berlino del periodo tra le due guerre vi appare come un posto di passaggio, vissuta dalle brame di una Vienna fuori stagione, come se fosse descritta da un parente stretto, un po' meno fantasioso, di Cristoph Isherwood.Un po' come accade in The Extra Man con Kevin Kline, Gigolo di David Hemmings non ha niente a che fare con il sesso o con la ricerca di soddisfazioni carnali. Paul sembra cercare tutt'altro, senza riuscire, con ciò, a mostrarsi in qualche modo interessato. Se l'assunzione nella schiera di accompagnatori della baronessa ha il sapore di un'investitura, la maschera di quel che era stata Marlene Dietrich - truccatissima, di classe, ma evidentemente vestigia di un'altra epoca - appare inquietante. L'attrice, strettamente legata al periodo interbellico, vi appare come una donna inadatta a quel mondo che ha rappresentato, forse suo malgrado, per molti decenni dopo la morte di Hitler.
Chi sono quei personaggi che si esprimono in forza di aforismi più o meno memorabili, in un dandysmo superfluo, ballano sulla scena, che assistono a spettacolini poco credibili di Kabarett? Non ricordo un una descrizione di quel mondo che possa risultare meno vera, eppure a suo modo funzionale. Certo, Gigolo di David Hemmings è un film sulla Deutsche Bühne che sogna Hollywood come luogo di realizzazione, ma non ne ha il respiro, né lo spirito: Cilly sogna un Joseph von Sternberg che la porti dove il talento merita il successo e il successo ha un senso. Ma manca una chiave per ricreare il miracolo, in una Germania che negli anni '70 e '80 si mostra orgogliosa e fiera del nuovo cinema tutto tedesco.





