Sottotitolo: Guerra fredda in scala nei mari di Sicilia.
Questa potrebbe essere una spy-story perfetta: c'è la Central Intelligence Agency e ci sono i russi, ci sono traffichini collusi con la politica e con la mafia siciliana, ci sono i servizi segreti ed imprese troppo piccole per il lavoro che vogliono fare.
Sarebbe una spy-story perfetta, ma è solo capitalismo.
Da qualche giorno, grazie alle rivolte in Libia, l'opinione pubblica ha potuto riascoltare nomi probabilmente dimenticati come quelli dell'Eni (Ente Nazionale Idrocarburi) e di Gazprom, il colosso russo utilizzato in chiave (geo)politica da Putin e soci come ago della bilancia negli equilibri mondiali e dei quali nulla si dice quando – sovente – si parla dei rapporti del nostro paese con la “compagna” Russia, presi come siamo a guardare il dito (i rapporti personali Berlusconi-Putin) piuttosto che la luna (gli accordi economici e politici tra noi e loro).
Ci sono altri due nomi importanti in questa storia. Tanto importanti quanto sconosciuti.
Il 10 agosto del 2010 arriva sul tavolo dell'ex assessore all'Energia della Regione Sicilia Pier Carmelo Russo una lettera nella quale si chiede l'autorizzazione per poter raffinare in Sicilia qualcosa come cinque milioni di tonnellate di petrolio l'anno per almeno cinque anni. E questo solo come quantitativo minimo.
Nonostante ne vengano subito messe al corrente la questura di Palermo, la Guardia di Finanza ed il Copasir (Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica), la richiesta è di quelle importanti e, per questo, da tenere in forte considerazione. Quei cinque milioni di tonnellate annue, infatti, rappresentano circa un quinto del consumo totale annuo dell'intero paese.
Con tali volumi di raffinazione, pertanto, ci si aspetterebbe che fossero grandi multinazionali del settore come le già citate Eni e Gazprom a firmare la richiesta.
Sono invece due società praticamente sconosciute a dirsi pronte a stoccare il “petrolio degli ayatollah”: la Ibercom, una srl spagnola con sede ad Albacete, e la Corum Anlage, svizzera di proprietà di tal Antonino Giuseppe De Salvo.
C'è un'altra stranezza in questa storia: gli investigatori, infatti, si chiedono come possa una società con capitale sociale di appena 100 mila euro gestire un affare da 15 milioni. È dunque quasi logico pensare che dietro alle due società ci sia qualcun altro.
Potrebbero esserci i russi, considerando che dallo scorso novembre la Ibercom – di proprietà di tal Roberto Armero Sevriuk – vede nel proprio organigramma anche Anatolit Dubynskyi e Vadym Khazim, non proprio nomi di chiara origine spagnola.
Nella missiva, tra le altre cose, si fa anche il nome dell'emissario delle due società in loco: trattasi di Nicola Ravidà, ex assessore e deputato all'assemblea regionale della Democrazia Cristiana negli anni Ottanta e Novanta, salito alle cronache – oltre che per essere uno dei tanti politici ad aver preso tangenti durante gli anni Ottanta – anche per essere stato candidato al Senato della Repubblica nel 1994 nel movimento Sicilia Libera fondato da Tullio Cannella, mestierante dell'ars politica in quota Dc e curatore degli interessi di Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina e suo predecessore al comando di Cosa Nostra. Il movimento, dicono le cronache storico-giudiziarie, vide l'allontanarsi di esponenti mafiosi man mano che cresceva il loro interesse per l'allora astro nascente della politica italiana: il partito di Forza Italia di Silvio Berlusconi. Ma questa è un'altra storia...
È a questo punto della storia che entrano in scena i “carichi pesanti”. Da una parte i russi: non solo Gazprom (tramite l'ormai famosa joint-venture con Eni, proprietaria di alcuni impianti tra Gela e Milazzo) ma soprattutto la Lukoil – seconda compagnia al mondo - che ha da qualche giorno messo le mani sull'Isab di Priolo (Siracusa), tramite l'acquisto di quote della società che fino ad ora ha gestito la raffineria così da arrivare al 60% (dal 2008 ne deteneva il 49%).
Proprio l'Isab sarà il fulcro della campagna russa di Sicilia se, come ha spiegato Vagit Alekperov che amministra Lukoil, proprio dalla cittadina siracusana partirà anche il prodotto finito destinato al mercato statunitense, dove Lukoil già possiede circa duemila impianti di distribuzione.
Dall'altra parte, lo abbiamo visto, ci sono gli uomini di Langley, scesi in Italia per controllare la situazione sia per ragioni politico-economiche (che vedremo a breve) sia per tenere sottocontrollo il deposito di armi della Nato – nel quale non si sa che tipo di armi si trovino – sia per controllare la distanza dei russi dalla base di Augusta, dove sovente sostano sommergibili e navi americane a propulsione nucleare.
Sarà forse un caso – o forse no, chissà – che negli stessi giorni in cui alla Regione Sicilia arrivava una richiesta di tale portata che il Consiglio dell'Unione Europea inaspriva le limitazioni commerciali all'Iran, comprendendo anche i prodotti petroliferi.
È poi da tenere ben presente l'interesse della criminalità organizzata nella vicenda: non solo quella siciliana, dove Massimo Ciancimino ha più volte parlato dei rapporti di Cosa Nostra proprio con Gazprom:
Ciancimino, Gazprom fattura 4 mila e 250 miliardi di euro e fa utili per 450 miliardi. Scusi la domanda ma perché doveva mettersi in affari con voi?
Voglio ricordarle che la Fingas del professor Lapis aveva appena incassato 120 milioni di euro dalla vendita agli spagnoli della Società che aveva metanizzato i paesi siciliani. E la nostra forza era proprio questa: solo una piccola società come la nostra poteva agire in maniera “agile” e meno burocratica nella seconda fase degli accordi, quella che prevedeva il ritorno di parte dei soldi in Russia alle fondazioni vicine agli uomini di Gazprom. Non presentavamo i rischi connessi all’inserimento di società pubbliche e grandi come dimostra il recente caso Finmeccanica.
[qui: http://www.antimafiaduemila.com/content/view/31846/48/ il resto dell'intervista]
e dove da un'intercettazione risulterebbero gli interessi sia di Marcello Dell'Utri e di Aldo Micciché, ex Democrazia Cristiana legato alla cosca dei Piromalli (Gioia Tauro). Ma anche questa è un'altra storia...
Gli uomini di Langley, lo abbiamo già detto, sono sbarcati in Sicilia anche per tutelare gli interessi americani nell'area, cioè ribadire gli interessi degli estrattori texani lungo le coste della Trinacria (e non solo) che hanno ottenuto le autorizzazioni per trivellare in territori qualificati ad alto rischio ambientale, come quelli di Priolo, Milazzo e Gela, senza contare che le piattaforme petrolifere verrebbero posizionate in posti ad alto rischio sismico, ponendo così le basi per un disastro ambientale al cui confronto quello della “Deepwater Horizon” nel golfo del Messico di qualche mese fa sarebbe una cosa da nulla (visto che il mar Mediterraneo è un mare chiuso).
Dalle richieste fin qui pervenute, il paesaggio siciliano potrebbe ben presto subire pesanti modifiche, non solo per la presenza delle strutture necessarie al processo di estrazione, ma anche perché sarà possibile costruire le piattaforme su ogni centimetro di terra ancora “vergine”: dalle pendici dei vulcani alle faglie sismiche passando per le aree archeologiche: la Hunt Oil Company, ad esempio, ha richiesto il permesso per posizionarsi a poche miglia dall'isola Ferdinandea, considerata uno dei paradisi per sub. Per non parlare della vicenda “no-Triv” della Val di Noto, dove dal 2005 la popolazione non solo si oppone allo strapotere delle multinazionali petrolifere, ma anche alle sentenze di una giustizia che per adesso sta facendo gli interessi del Potere (petrolifero).
Non è peraltro fonte di scandalo il constatare per l'ennesima volta quanto la politica sia stata e sia ancora compatta nel difendere gli interessi delle grandi multinazionali (quando si dice “i grandi elettori”): dalla Shell alla Mediterranean Resources, dalla Nautical Petroleum alla nostra Eni passando per la “San Leon Energy” (una piccola srl con capitale sociale di appena diecimila euro che, prima di passare agli irlandesi, risultava addirittura inattiva) tutti – da destra a sinistra passando per “Vasa Vasa” Cuffaro divenuto eroe nazionale – si sono concessi allo strapotere dell'oro nero. Quanto ci abbiano guadagnato personalmente, poi, rimane e rimarrà probabilmente un mistero.
In tutto questo, peraltro, la Regione non ci guadagna assolutamente niente. O meglio: non ci guadagna niente se paragoniamo il lascito derivante dalle royalties (cioè i diritti che le compagnie pagano alla regione per la distruzione del territorio) al volume d'affari del mercato dell'oro nero: su oltre 300 milioni di euro all'anno, infatti, sono appena 420 mila gli euro lasciati a Palazzo d'Orleans. A ciò bisogna anche aggiungere le perdite nel turismo e nell'indotto della pesca.
Da una parte, dunque, gli interessi russi. Dall'altra quelli americani. Ma la guerra fredda non era finita nel 1989?