Il pallone verrà messo al centro del campo, la partita inizierà. I tifosi saranno allo stadio a cantare, a sostenere la propria città, la propria nazione. Il calcio non è mai stato soltanto uno sport, il calcio è l’unica religione che non ha atei.
Fermarsi per chi? Fermarsi per cosa? Albert Camus diceva che non c’è un altro posto del mondo dove l’uomo è più felice che in uno stadio di calcio. In quei 90 minuti tutti si sentono di appartenere a qualcosa.
Nei paesi dove la sofferenza è il pane quotidiano, il calcio è un’evasione, un modo per ricordare e allo stesso tempo dimenticare senza essere superficiali. Perché Parigi e la Francia non vogliono perdere la voglia di giocare.
“Siamo orgogliosi di essere francesi e di rappresentare la Francia”, ha detto Deschamps. I Bleus di Griezmann e della sorella viva per miracolo, di Diarra e della cugina che invece non ce l’ha fatta scenderanno comunque in campo a Wembley contro l’Inghilterra.
Lo storico Wembley, simbolo del calcio inglese, per una notte si vestirà con i colori francesi e tutti gli 80.000 presenti canteranno la Marsigliese. In un momento del genere il calcio diventa aggregazione, sovrasta tutte le rivalità e unisce popoli che per secoli si sono tanto odiati.
Unisce due città come Parigi e Marsiglia, da sempre l’una contro l’altra perché rappresentati rispettivamente di borghesia e popolo. “Nous sommes Paris”, recita lo striscione messo in mostra dagli ultras dell’OM. Noi siamo Parigi, nonostante tutto.
E nonostante tutto si giocherà, anche in Ligue 1. L’ipotesi di rinviare le prossime due giornate di campionato per motivi di sicurezza è stata presto scartata: “La vita riprende il suo corso”, il messaggio forte e chiaro lanciato dal Ministro dello Sport Patrick Kanner.
Molte delle vittime degli attentati sarebbero andate allo stadio nel weekend per incitare la propria squadra. Per loro il prossimo sarà il fischio d’inizio di una nuova vita. Per loro la Francia non si ferma, ma gioca ancora.