Quando ancora i riflettori non erano accesi e i microfoni del mondo lontani dalle polverose strade delle capitali dei paesi arabi, alcune voci erano già in piazza per denunciare le loro ragioni. Non avevano la forza dirompente di una diretta internazionale e la loro influenza era minima nei confronti del governo, non intimidito dall’eco roboante di un regime caduto, di una Primavera araba. Da novembre 2010 la Giordania è scesa nelle strade e continua ancora oggi, a più di un anno dall’inizio di tutto. Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana la protesta si è evoluta, è cambiata l’organizzazione e il luogo di svolgimento così come si sono diversificati i soggetti intervenuti per prendervi parte. Il processo democratico in Giordania è andato a fasi alterne dalla sua nascita fino ad oggi, bilanciando concessioni e passi indietro a seconda della situazione economica e internazionale più o meno favorevole. Significative sono le parole dell’ex Primo Ministro Marouf Bakhit in occasione del sessantacinquesimo anniversario dell’indipendenza: “Alla luce dei grandi cambiamenti attorno a noi, e grazie alla nostra saggia dirigenza ed al coraggio di tutti i giordani, siamo fiduciosi che supereremo tutte le sfide, come sempre abbiamo fatto”1.
Un processo che va avanti da anni, quindi; non è la prima volta che la monarchia giordana si trova ad affrontare delle proteste popolari. Non è questa la sede per ripercorrerle ma ha una particolare valenza evidenziare le connessioni che esse hanno avuto con l’ambiente universitario. Alla luce delle proteste attuali è infatti tornato alla ribalta e continua a far parlare di sé il fenomeno della violenza nelle università. Se ne è parlato nel gennaio del 2010 in occasione di un workshop2 organizzato dall’associazione per i Diritti degli Studenti Thabahtoona, al quale hanno preso parte esponenti dell’Arab Human Rights Watch. Le pagine dei quotidiani nazionali danno mensilmente spazio agli scontri che si verificano nelle università di tutto il regno. È un caso che questi episodi siano raddoppiati nel 2011 rispetto all’anno precedente? Il Centro Al-Rai per la Ricerca ha organizzato a gennaio 2012 una tavola rotonda nella quale ha riunito il Ministro per l’Alta Istruzione e la Ricerca Scientifica, i presidi delle università e rappresentanti di organizzazioni studentesche per discutere del problema3. Lo stesso re Abdullah II è intervenuto più volte sull’argomento. Qual è il motivo di tutta questa preoccupazione nel contesto più ampio delle proteste? Proviamo a fare un passo indietro.
Le Università degli anni Settanta e Ottanta offrivano un ambiente molto diverso da quello di oggi. L’attivismo politico cresceva in esse tanto da essere considerate fulcro delle attività politiche delle opposizioni. Queste subirono, però, un brusco freno nella seconda metà degli anni Ottanta: le università divennero oggetto di rigidi controlli da parte dei servizi di sicurezza (le famose mukhabarāt) e gli studenti inquadrati all’interno di innocue attività extra-curriculari. Le parole d’ordine diventano controllare e tenere gli studenti occupati per evitare pericolose deviazioni.
Negli anni Novanta l’unico movimento ancora attivo all’interno delle università è quello islamico, prevalentemente palestinese, braccio della Fratellanza Musulmana che domina i Consigli degli Studenti4. Hanno un’organizzazione interna, linee guida, principi e programmi elettorali. Oggi le elezioni annuali dei Consigli Studenteschi sono puntualmente occasione di scontri violenti fra gli studenti. Tutto questo è frutto degli avvenimenti degli anni Settanta e Ottanta.
Il 2 aprile 1979 studenti palestinesi della Università di Giordania manifestarono all’interno del campus per commemorare “Il giorno della Terra”5 e il recente successo della Rivoluzione Iraniana. Il loro errore fu non sventolare bandiere con l’effige del re e bandiere nazionali oltre alle foto di Arafat, Khomeini e alle bandiere palestinesi. Studenti di origine transgiordana mossero una controprotesta accusandoli di questa mancanza. Un pretesto insomma. Questa modalità di scoppio delle dispute la rincontreremo più volte. Quattordici studenti rimasero gravemente feriti nello scontro e diversi vennero trattenuti dalle forze di sicurezza. Le misure prese furono dure: chiuse le sedi delle organizzazioni studentesche e cancellate tutte le lezioni che potevano riguardare argomenti sgraditi al governo e possibili affiliazioni con la Fratellanza Musulmana6.
Quella che tutti ricordano e che per prima salta alla mente è la protesta di Yarmouk del 13-14 maggio 19867. Alla manifestazione, imponente nel suo numero (circa 2-3000 studenti), partecipavano diverse forze, ma in particolare Al-Fatah, il Partito Comunista e la Fratellanza Musulmana animarono la protesta. Il governo tentò di negoziare con gli studenti tramite il Preside dell’Università e un parlamentare della Fratellanza Musulmana, ma non si raggiunse nessun accordo. Gli studenti reagirono all’assedio della polizia con il lancio di bottiglie e atti di vandalismo nei confronti delle strutture universitarie. L’escalation arrivò di notte8. Il re Husayn denunciò l’accaduto paragonandolo agli eventi del Settembre Nero e biasimando Al-Fatah per l’irresponsabile tentativo posto in essere da elementi sovversivi contro la stabilità del Paese, a dispetto del fatto che alla protesta presero parte studenti palestinesi e studenti transgiordani (e questo era noto a tutti, anche al Re)9.
A livello nazionale i provvedimenti presi erano volti, per citare l’espressione usata dal Re nelle indicazioni date al Primo Ministro, a “tappare le falle” e inaridire, con una legislazione che controllasse sia gli studenti sia le amministrazioni universitarie, il fertile terreno rivoluzionario delle università. Venne vietata la distribuzione di volantini e bollettini all’interno dei campus e i giornali degli studenti potevano essere pubblicati solo sotto la vigilanza della Presidenza per gli Affari degli Studenti. Il neonato Ministero dell’Istruzione Superiore diventò il cane da guardia delle università, limitandone l’indipendenza10.
Gli scontri che si sono susseguiti in questi anni sono talmente numerosi che si possono paragonare ad episodi di cronaca nera. Tutte le università ne sono state teatro, le più piccole e le più grandi. Si sono verificati scontri alla Università di Giordania nel dicembre 2010 in occasione delle elezioni per il rinnovo annuale del Consiglio Studentesco e in conseguenza di questo otto studenti sono stati espulsi. Nel novembre 2010 disordini hanno avuto luogo all’Università di Yarmouk causando provvedimenti disciplinari nei confronti di settantotto studenti. Nel 2009 in seguito a scontri avvenuti presso l’Università Applicata Balqa, che hanno causato la morte di una persona, le violenze si sono estese anche alla città di Al-Salt fra i parenti della vittima e quelli del sospetto colpevole. Secondo i membri della Campagna Thabahtoona11, nel 2010 si sono verificati ben 31 scontri violenti nelle università giordane, pubbliche e private12. Nel solo 2011 si sono verificati 58 scontri rilevanti nelle università del regno, una media di quasi 5 scontri al mese13. Impressionante. Per la loro frequenza ed intensità non possono essere ignorati. Sono una malattia pericolosa per i giovani prima di tutto, per le università e l’educazione e, di conseguenza, per la società.
“Gli atti violenti provocano comunque un notevole effetto sull’ambiente esterno: ne attivano l’attenzione. Niente richiama l’attenzione come la violenza, che permette perciò di pubblicizzare e rendere visibile in massimo grado la rivendicazione o il risentimento”14. Il fenomeno della violenza nelle università giordane è un sintomo molto complesso di una tensione latente a livello nazionale. È semplice e difficile allo stesso tempo capire come una lite possa scoppiare ma, che si arrivi, così spesso, ad usare la violenza come mezzo di risoluzione delle controversie potrebbe sembrare espressione di noncuranza delle regole. Cerchiamo di capire meglio.
Nel 2009 un professore universitario ha realizzato un esperimento particolare nel tentativo di venire a capo della situazione. Ha creato un gruppo di discussione su Facebook, con i suoi studenti, incoraggiandoli a parlare di quello che succede il minuto prima che scoppino le violenze. I risultati da lui ottenuti raggruppano le risposte dei ragazzi in due categorie: motivi legati alle ragazze e aggressività maschile. I problemi relativi alle ragazze non sono niente di anormale, in particolare fra giovani che per la prima volta sperimentano la convivenza fra generi in ambito universitario. L’aggressività maschile è qualcosa di più pericoloso. È indice di mancanza di autocontrollo e di insicurezza. Uno sguardo prolungato o solo un fugace incrocio d’occhi frainteso innesca un meccanismo di sfida e automaticamente di attacco come in un branco selvatico15.
Generalmente sono due le spiegazioni principali che possono essere date di esso: la prima riguarda, come accennavamo, il rapporto fra sessi; la seconda il potente e pervasivo fenomeno del tribalismo. Per quanto riguarda il primo punto, la maggior parte degli studenti frequenta i corsi di istruzione elementare e secondaria in classi separate, senza avere nessun contatto con l’altro sesso. L’ambiente universitario li catapulta in un ambiente nuovo, pieno di stimoli e di situazioni da affrontare. Solo l’Università di Giordania ha una popolazione di 38.000 studenti provenienti da tutti i distretti del Regno e dall’estero. Rapportarsi con un clima così variegato può creare tensioni e ansie nei ragazzi. Ma cosa crea l’irrazionale impulso alla violenza ingiustificata? Una forza per niente irrazionale: le regole della tribù. I motivi che hanno causato la disputa non sono rilevanti: quando un membro di una tribù viene sfidato e ingaggia la lotta, i suoi compagni non possono fare a meno di partecipare. Non conta il perché, non contano le conseguenze. Quando la tribù chiama non ci si può tirare indietro: questo meccanismo di lealtà e incondizionato appoggio verso essa si chiama fazaa (supporto). La mancata risposta alla chiamata può comportare la perdita dell’appoggio della propria tribù. Inaccettabile. La domanda da porsi qui sarebbe perché i ragazzi hanno bisogno del sostegno della tribù. Le regole dell’università e lo Stato dovrebbero essere la loro garanzia. Ma non è così. L’oppressione politica e i meccanismi di frammentazione etnica esistenti nel paese hanno portato le tribù ad assumere sempre maggiore importanza nella società. Tanto che è più importante rispondere alla chiamata del fazaa che comportarsi in maniera civile e dare importanza alla propria carriera universitaria. C’è, infatti, un meccanismo che favorisce questa noncuranza delle conseguenze: esse il più delle volte non arrivano. Le amministrazioni universitarie sono riluttanti a punire severamente gli studenti perché, facendolo, riceverebbero anche loro pressioni da parte delle famiglie degli studenti. La wasta16 permette che i ragazzi non vengano puniti17. Uno dei motivi della violenza è, secondo molti, appunto la mancanza di punizioni adeguate. Gli studenti sanno di poter uscire indenni e senza macchia da qualsiasi situazione. È anche qui un circolo vizioso: le tribù sono la causa del dilagare degli scontri e le tribù stesse, aiutando gli studenti a non subire le conseguenze, sono ancora una volta la causa di tutto.
Altra motivazione spesso addotta per spiegare il fenomeno è la mancanza di attivismo politico all’interno delle università. Negli anni Settanta e Ottanta, nonostante la legge marziale le università erano un ambiente molto più frizzante e dinamico di oggi. La legge sui partiti politici, vietando le attività politiche nei campus, ha lasciato un vuoto che secondo molti è stato occupato dalle tribù. Trasformando le università in “incubatrici tribali”. L’unico oppositore che è riuscito a sopravvivere in questi anni è il partito islamico. La mancanza di ideologie in un ambiente pieno di stimoli come quello universitario ha generato una situazione di assenza di punti riferimento che causa negli studenti il bisogno di trovare rifugio nel familiare legame tribale. Le autorità, responsabili di questa deriva tribale, si difendono affermando che le attività politiche distoglierebbero gli studenti dallo studio. Allo stesso tempo però la soluzione che esse propongono è impegnare gli studenti in attività extra-curriculari18. Un controsenso perché occupare il tempo libero significa diminuire le ore che essi possono dedicare allo studio.
Ogni anno le elezioni studentesche sfociano in scontri. I numeri parlano chiaro e la situazione non può essere mascherata come eventi isolati o non correlati fra loro. Le elezioni studentesche, in mancanza di partiti politici attivi all’interno dei campus, si basano esclusivamente sulle uniche due forze aggregative permesse: le tribù e il movimento islamico; quest’ultimo è ben organizzato, ha un programma elettorale e principi che gli studenti possono condividere o meno. Le tribù invece giocano alla legge del più forte. I candidati tribali non hanno quasi mai un programma elettorale, non spiegano ai loro compagni perché dovrebbero essere eletti e cosa faranno una volta in carica. Basta solo il loro nome. “Che altro motivo ci dovrebbe essere?” mi dice un ragazzo intervistato, candidato per le elezioni studentesche del 2010. “I ragazzi sanno che mi devono votare perché appartengo a questa tribù”19. È normale poi che, se le elezioni non vanno come si sperava, l’unica arma che si ha è la violenza. Non c’è una base per il confronto durante il periodo elettorale e il metodo di competizione prevalente è la legge del più forte. In più, l’aggravante che molti ragazzi (ma non tutti perché il movimento non è su base etnica) del movimento islamico siano di origine palestinese accende gli scontri più che mai.
Il ruolo del tribalismo nella Giordania di oggi è controverso ma allo stesso tempo semplice da capire se si interrogano i protagonisti: un ragazzo di ventitré anni, laureato, che legge Il Leone di Giordania e allo stesso tempo frequenta gli HashTag Debates20. Il lealismo è d’obbligo per un figlio delle tribù: come si può non essere fedeli al re che riserva i posti di lavoro alla propria famiglia nel pubblico e nell’esercito. Lo status quo politico ed economico garantisce i privilegi di cui la famiglia/tribù gode e la lealtà deve essere per questo incondizionata. Lui, però, è un riformista. Crede che le cose possano migliorare. È leale al re e ama il suo paese e proprio per questo si impegna per migliorarlo. Per lui il cambiamento è positivo. Ma questo comportamento può portare ad esclusione ed emarginazione. È etichettato come anticonformista. Allo stesso tempo, lo stesso ragazzo riformista percepisce l’enorme senso di sicurezza che far parte della sua tribù gli garantisce. Nel rapportarsi con le persone ogni giorno e nel lavoro. La tribù è un biglietto da visita, una garanzia di affidabilità. Notizie sulla tua persona, competenza, lavoro, vengono estratte dall’enorme rete di relazione di cui si fa parte. La tribù ti presenta. La dicotomia che emerge dà una spiegazione efficace del perché il fenomeno del tribalismo sia così difficile da contrastare in Giordania. Non lo si può contrastare. Il tribalismo nei suoi aspetti negativi e positivi è l’anima dello Stato. È come un “grande fratello”. Onnipresente: asfissiante e protettivo nello stesso momento.
Per tornare al punto iniziale del legame fra l’ambiente universitario e le proteste a livello nazionale, non si può prescindere dal collegarli se si considera la democrazia un processo in divenire di corrispondenze e partecipazione. Al di là della forma di governo la democrazia è un’esperienza di confronto con gli altri. Non è una forma associativa egoista poiché gli interessi sono condivisi e per raggiungerli gli individui si devono muovere insieme verso la stessa direzione. La complessità degli stimoli che la democrazia offre sviluppa l’individuo solo se può agire nel pieno delle libertà. Se la sua azione è gestita e limitata, la democrazia rimane soffocata.
La domanda che ho posto a molti dei soggetti che ho intervistato parlava proprio di questo. I ragazzi sono pronti per la politica? Due sono state le risposte prevalenti. La più ambigua delle risposte è stata il consiglio che il preside degli Affari Studenteschi dell’Università Giordana di Scienza e Tecnologia si è sentito di dare alla gioventù di oggi, in virtù della sua esperienza: “Gli studenti hanno bisogno di essere educati alla democrazia e alla politica. I ragazzi devono imparare a minimizzare le differenze fra di loro e a lavorare insieme. Il Paese è protetto dal Re”21. Il Paese è protetto dal Re. Un’affermazione importante che suona come un monito. Non è ancora tempo di permettere la presenza di partiti politici e attivismo all’interno delle Università perché i giovani non saprebbero gestirli, a tempo opportuno il Re e le persone più esperte di loro decideranno quando tutti saranno pronti per la democrazia. Essere pronti per la democrazia, è proprio questo l’inghippo. La democrazia è un processo, non si è pronti per qualcosa a cui bisogna partecipare. All’opposto, infatti, la risposta del Dottor Mohammed Al-Masri, analista del Centro di Studi Strategici della Università di Giordania, alla stessa domanda è stata: “Pronti per cosa? Certo che sono pronti! È una scusa! Dire che i giovani devono essere educati è una bufala22. I giovani hanno bisogno di essere liberi”23.
L’obiettivo di questo studio era verificare l’esistenza o meno di una relazione fra l’ambiente universitario e i processi che vi si sviluppano e le dinamiche della società a livello nazionale. Attraverso un lavoro condotto sul campo, sono emersi i punti di contatto e le analogie fra i due livelli. L’ipotesi che mi sono proposta di verificare era se le università sono lo specchio della società e quindi se intervengono in esse gli stessi meccanismi del livello macroscopico statale. Lo studio degli episodi di violenza legati alle elezioni studentesche, ha rilevato che le cause di questi comportamenti affondano le radici al di fuori dell’università. Il legame università-società scorre su un doppio binario: la società crea l’ambiente universitario sugli stessi presupposti problematici su cui essa si fonda. Allo stesso tempo però, le università producono individui formatisi in un ambiente “malato” che andranno a prendere posto nella società, degenerandola attraverso un circolo vizioso. Proprio questa catena dimostra che le università possono avere un ruolo fondamentale nel processo di democratizzazione del Paese. Questo circolo vizioso può essere spezzato trasformandolo in un circolo virtuoso, ed è quello che sta succedendo in questi mesi. Il passo decisivo per la riconversione deve essere fatto dalle istituzioni attraverso l’accoglimento delle richieste di riforma. Modificando le componenti di una parte, infatti, il prodotto finale sarà diverso. È sicuramente un processo a lungo termine in quanto i fattori che influenzano ogni variante sono molteplici. Per esempio, se ci riferiamo al fenomeno del tribalismo all’interno dei campus, dobbiamo ammettere che non è la legge elettorale il solo fattore scatenante: i ragazzi, in particolare quelli che entrano attraverso le quote e le makrūmāt malakiyya (i cosiddetti privilegi del re), crescono intrisi di valori tribali, con poche opportunità di confronto e una certa omogeneità nei rapporti interpersonali. Arrivati all’università, si trovano a contatto con il diverso, il nuovo e quindi potenzialmente ostile e scattano i meccanismi di difesa tribali. I ragazzi ne sono colpevoli solo in parte: mettono in pratica quello che hanno imparato.
Per risolvere questa situazione sarebbe necessario un passo indietro del Re nelle sue politiche con le tribù. Oltre alla lealtà in cambio di università, borse di studio, posti nell’esercito e nel pubblico, dovrebbe promuovere il rispetto della legge al di sopra dei metodi di risoluzione dei conflitti tribali che, per quanto vittoriosi nel passato, dovrebbero perdere d’appeal di fronte alle garanzie di uno Stato di diritto. La lealtà e il rispetto per il Re sono molto forti e sentiti nel Paese da parte di tutti, a prescindere dall’etnia, dalla religione o dall’età. Tutti amano il Re. Proprio lui, ancor di più di quello che ha già fatto in questi mesi, potrebbe rivelarsi la chiave di volta per riformare il Paese in senso democratico. In questo modo la sua legittimità, già indiscussa, guadagnerebbe di valore e merito politico agli occhi dei cittadini. I suoi predecessori hanno dimostrato di sapere interpretare gli umori del popolo, mantenendo sempre l’equilibrio fra privilegi e concessioni. La Primavera araba ha dimostrato a tutti i governanti che niente è immutabile ed una nuova forza è nata senza la paura di cambiare. Nessuno ha urlato slogan contro il Re (cosa che tra l’altro sarebbe illegale), “al-sha’b yurid islaḥ al-niḍam”: il popolo vuole la riforma del sistema, così ha intonato. Questo non vuol dire però che le piazze si accontenteranno di riforme di facciata. Il cambiamento è possibile, scuse e temporeggiamenti non saranno accettati.
La realtà giordana però è talmente complessa che questo processo sta causando spaccature interne alla società. Il problema identitario nazionale, la dualità tra Transgiordani e Palestinesi, la polarizzazione economica fra pubblico e privato che si sovrappone a quella etnica, la violenza sempre più frequentemente metodo preferenziale rispetto al dialogo: tutte dinamiche consapevolmente create dallo Stato nel corso degli anni. Politiche interessate ai risultati di breve termine hanno prodotto degli effetti inaspettati che sono sfuggiti al controllo. Lo stato “tribale” creato indirettamente dalle istituzioni stesse si può rivelare un’arma a doppio taglio: l’autorità statale è meno sentita di quella tribale, è sempre il richiamo della famiglia che vince e il Re, pur essendo motivato a portare avanti riforme democratiche, si trova a dover chiedere dei sacrifici al bambino che per tanto tempo ha viziato. Questo, potrebbe minare alle basi il suo potere ma d’altronde le manifestazioni in piazza possono fare altrettanto. Sradicare un sistema così ramificato, i cui ingranaggi sono ingrassati dall’olio della wasta e della corruzione, richiede tempo e una grande abilità politica. Il governo d’altra parte, frutto di questo sistema patologico, deve seguire le indicazioni del Re e le richieste del popolo per porre in essere provvedimenti concreti che, uno dopo l’altro, possano scalfire i meccanismi di auto-riproduzione della patologia.
Un paese la cui popolazione è composta per il 70% da giovani deve avere come priorità sia la loro valorizzazione sia, di conseguenza, la loro consacrazione ad artefici privilegiati del cambiamento. Non hanno bisogno di essere educati alla democrazia, devono solo viverla. È la pratica di essa che ne crea una maggiore comprensione. Un processo si vive, non viene accettato o negato a priori. Le manifestazioni, gli Shabab24marzo24, gli HashTag Debates, il movimento Thabahtoona, sono tutti segni ed esempi di una società civile viva che cerca di emergere da sotto una coltre di cenere. La cenere degli anni di legge marziale, della divisione nazionale, del Settembre Nero, delle guerre combattute e di quelle vissute indirettamente, della crisi economica. Nonostante tutto, i giovani ci provano, vogliono esserci. Le mukhabarāt non fanno più paura. Le università giordane possono veramente diventare le incubatrici del cambiamento, anzi lo sono già, ma devono liberarsi dai vecchi schemi e insegnare ai ragazzi il dialogo, il confronto e a non aver paura del diverso.
Ritroviamo quindi nelle università un micro cosmo che vive le stesse dinamiche nazionali in scala ridotta. Riepilogare i risultati ottenuti ci permette di ottenere un discreto elenco di similitudini fra i due livelli che avvalorano la nostra ipotesi iniziale. In particolare, la mancanza di attivismo politico all’interno dei campus trova la sua controparte nell’assenza di partiti forti sulla scena politica nazionale. L’asfissiante interferenza delle mukhabarāt nella vita degli studenti condiziona il loro comportamento e indirizza pericolosamente l’ambiente universitario verso un terreno dominato da legami tribali, così come sono controllati i cittadini. Negli anni Ottanta e Novanta, prendere parte ad attività politiche ed essere scoperti dai servizi segreti aveva conseguenze gravi: le compagnie assicurative d’accordo con l’Intelligence non concedevano le polizze a chi era accusato di attivismo politico e, senza assicurazione, nessun datore di lavoro poteva assumere. Questa paura si è trasmessa dai genitori ai figli, oggi all’università, che vengono ammoniti dalla famiglia di non partecipare ad attività politiche perché condizionerebbe irrimediabilmente la loro vita.
Uno degli intervistati mi ha detto che essere nel Consiglio Studentesco è il primo passo per avere una posizione di comando al termine degli studi. Esso però, come strutturato fino ad oggi, non ha niente a che fare con la politica. La legge applicata per l’elezione del Consiglio Studentesco, il sistema “una persona-un voto”, ha trasformato i campus in campi fertili per il tribalismo a causa del meccanismo che premia la persona piuttosto che la sua proposta elettorale. Allo stesso modo su scala nazionale è la tribù stessa che elegge il suo rappresentante attraverso il controverso sistema dei distretti della legge elettorale, ancora una volta One-person One-Vote. Lo Stato, negli ultimi anni, ha addirittura incoraggiato lo svolgimento di Primarie per eleggere i candidati all’interno di ogni tribù.
Ancora, gli episodi di violenza universitari evidenziano che è il richiamo della tribù a prevalere sul rispetto dei regolamenti e di un comportamento civile. Nella società, gli scontri avuti durante le manifestazioni dimostrano che il tribalismo istiga allo scontro in entrambi i livelli, quello universitario e quello nazionale. La fitna prodotta dalle proteste, con manifestanti pro-riforme da una parte e pro-re dall’altra, ha una forte caratterizzazione etnica. Chi si oppone alle riforme vanta, in genere, la sua origine transgiordana e accusa i riformisti, tra le cui fila sono presenti molti palestinesi, di non essere leali al Re e non amare la Giordania. È un continuo ripresentarsi delle stesse problematiche, mai risolte e spesso strumentalizzate.
Se la Giordania abbia la possibilità o meno di portare avanti vittoriosamente il processo democratico, dipende da due fattori: la consapevolezza da parte delle autorità di essere arrivati ad un punto di non ritorno (complice il vento della Primavera araba) e la tenacia dei manifestanti di portare avanti intelligentemente le loro richieste. Da quanto detto finora sono tanti gli aspetti che potrebbero portarci a definire la Giordania un paese non democratico ma, la mia esperienza, mi porta ad essere positiva a riguardo, complice la favorevole congiuntura internazionale. Il Re si sta facendo promotore del cambiamento e sta redarguendo il governo con consigli e direttive insistenti. Le autorità, superati i drammatici e controversi eventi del 24-25 marzo 2011, sembrano aver capito che le vecchie tattiche di divisione, alterazione della realtà e cooptazione dei pensieri non funzionano più. I servizi segreti dovranno adeguarsi al nuovo clima politico riportando il loro ruolo nella società a quello di protettori silenziosi dei cittadini e di garanti della sicurezza nazionale. Questo però, probabilmente, sarà un processo che richiederà più gradualità.
La gioventù giordana è la grande sorpresa. Ha tutte le carte in regola per prendere parte attivamente alla vita politica del proprio Paese. Definirei la Giordania una democrazia in fieri, il cui movimento che alternava periodi di accelerazione a periodi di stallo, se non retrocessione, ha subito una spinta fortissima nel corso dell’ultimo anno. La società giordana ha al suo interno sia i fattori frenanti sia gli incentivi che possono decidere la vita di questo processo. L’entusiasmo e la consapevolezza che ho visto negli occhi e sentito nelle voci dei giovani, ribadisco, fa ben sperare per un successo.
Per concludere questo articolo, cito le parole di Italo Calvino ne Le città invisibili:
Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra. «Ma quale è la pietra che sostiene il ponte?», chiede Kublai Kan. «Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra», risponde Marco, «ma dalla linea dell’arco che esse formano». Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: «Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che mi importa». Polo risponde: «Senza pietre non c’è arco».
Non è importante soffermarsi su quanto le istituzioni giordane siano democratiche adesso. Ci sono dei passi che non possono essere anticipati senza strappi, devono essere gettate le basi e poi pietra dopo pietra l’arco può prendere forma. Ancora una volta decisivo in questo processo sarà l’interdipendenza dei mondi e delle priorità, dal familiare al nazionale, dal regionale al mondiale. Fino a quando la diretta non abbandonerà le voci di chi protesta. Live from Taḥrīr.