(con la gentile partecipazione di Dino Buzzati)
“La signora Maria Gron entrò nella sala al pianterreno della villa col cestino del lavoro. Diede uno sguardo attorno, per constatare che tutto procedesse secondo le norme familiari, depose il cestino su un tavolo, si avvicinò a un vaso pieno di rose, annusando gentilmente. Nella sala c’erano suo marito Stefano, il figlio Federico detto Fedri, entrambi seduti al caminetto, la figlia Giorgina che leggeva, il vecchio amico di casa Eugenio Martora, medico, intento a fumare un sigaro. « Sono tutte foncées, tutte andate » mormorò parlando a se stessa e passò una mano, carezzando, sui fiori. I petali si staccarono e caddero. Dalla poltrona dove stava seduta leggendo, Giorgina chiamò: «Mamma!» (Dino Buzzati, “Eppure battono alla porta” in La Boutique del mistero)
Caterina aveva il cuore pesante, quasi quanto i suoi passi sugli scalini della chiesa. Aveva la testa colma di quella tristezza che assale chi dovrebbe rassegnarsi e non riesce a farlo. Al suo ingresso la fuga di luce tra i battenti del portone colpì il ventre oscuro del tempio come la lama del macellaio tra le costole dell’agnello.
Come una freccia, il bagliore gli ferì gli occhi. La cerimonia era già iniziata e qualcuno si girò tossendo. Si accomodò dalla parte della sposa, laddove si potesse meglio vedere l’altare. Era una bella donna, pur avendo già passato i sessanta, la sua chioma era nerissima e le sue curve olivastre ancora attuali tra le parole che animavano i bar del paese. Quel giorno, poi, si era messa elegante e attirò per tutto il tempo gli sguardi, lussuriosi quelli degli uomini, malefici, quelli delle invidiose. Lei era immobile, con lo sguardo fisso là, all’altare.
Al momento del si accadde qualcosa di magico, dal rosone la chiesa si riempì di una luce calda e chiara che, generosamente, dispensava serenità ad ogni animo affranto. Tutti ne furono evidentemente stupiti, Caterina non ci pensava, forse non se n’era nemmeno accorta, fissa com’era nel suo dolore, là sull’altare.
Quando il matrimonio ebbe termine tutti, attorno a lei, si mossero in giubilo. Rimase ferma, in preghiera, sulla panca di legno. Immobile, attese. Attese che si compiessero i rituali di circostanza, il riso e le foto. A sancire la fine di tutto, entrarono allora diverse comari che si misero in preghiera, in ordine sparso.Al rumore familiare dell’uscio della canonica Caterina ebbe un fremito, ma non alzò lo sguardo.
Non ancora.
Moltiplicò la preghiera.
Atteso il passare del tempo necessario, tornò a fissare l’altare. Don Giorgio, il nuovo prete, era là. Don Giorgio, nell’imbarazzo dei venticinque anni era in piedi, nei pressi del tabernacolo, con un libro in mano. Leggeva. Il Blanèse comparve dall’uscio del bistrot annunciato da un rutto poderoso, talmente forte che alle sue spalle lo inseguirono le peggiori maledizioni dell’oste, piegato a raccogliere i cocci di un paio di bottiglie cadute con lo spostamento d’aria. Faticava a ricordare quando fosse entrato là dentro, sapeva solo che in cielo era notte e che era l’ora di soddisfare altri bisogni. Si diresse, dunque, al quartiere delle puttane.
Barcollava un po’, ma si sentiva forte come un leone. Un mendicante storpio stava, silenzioso, sul ciglio della strada: gli sferrò un potente calcio in bocca che fece saltare alcuni denti del malcapitato sul marciapiede. Quello si accasciava in una pozza di sangue, mentre il Blanèse già rideva fragorosamente per la sua strada. D’un tratto, in un negozio con la vetrina rotta, vide una ragazza là indaffarata come commessa. L’interno della bottega era povero e tutto in disordine, tanto da non riuscire a capire cosa si cercasse di vendere là dentro.
Lo sguardo spento e sudaticcio era però attratto dalle forme abbozzate della giovane. Cominciò a piovere, la cosa lo convinse ad entrare, tra le bestemmie. L’acqua aveva interrotto un difficoltoso quanto maligno ragionamento. Non appena fu dentro, spalancò le fauci ed urlò qualcosa, esagitato. Nessuno udì le sue parole che furono coperte dal fragore di un tuono assai tempestivo.
La luce del lampo, tuttavia, gli rivelò la presenza di una vecchia che, imbacuccata in un mantello scuro, scrutava le pagine di un antico tomo attraverso la fioca cera di un lumicino. Un altro fulmine gli trapassò il cervello. Lungamente aveva errato alla ricerca di una risposta. Aveva spinto il suo respiro tra le lapidi dei cimiteri più remoti, aveva abbracciato col pensiero i vortici delle più grandi cattedrali, le aveva scalate, sempre raggiungendone il limite.
Aveva albergato in cripte sconosciute, si era recato nei più oscuri e lontani sepolcri senza trovare nulla che lo convincesse abbastanza. Lo studio gli aveva bruciato gli occhi e la decodificazione del mondo, il cervello. Aveva cercato ogniddove e, forse oltre, la Risposta, l’annullamento di ogni dubbio, la pace, l’onniscenza.
Ogni suo viaggio era stato impervio, luoghi e persone lo affascinavano, ma gli mentivano. Aveva visto i propri interrogativi moltiplicarsi, anziché diminuire al punto che, ogni mattina, il levarsi del sole lo stupiva e, tutte le sere, le stelle che lucevano lo emozionavano. Non era stanco, ma ora… ora, aveva trovato la Risposta. Ce l’aveva tra le mani, nel mezzo di una strada come tante. Decise di sedere su una panchina per godersi più comodamente la scoperta dell’Assoluto. Cosa sarebbe successo? Sarebbe diventato immortale? Forse più giovane?
A novantasette anni gli sarebbe piaciuto rinverdire un poco. Ma che questioni frivole! Sorpreso dai suoi desideri grossolani e infimi, pensò che fosse, forse, un primo sintomo della senilità. Si installò accanto ad una ragazza delicata, dai lunghi capelli neri, che col naso, lieve, curiosava tra le pagine di un libro. Alzò gli occhi verso di lui e gli sorrise, facendo spazio accanto a sé. Rimase commosso da quel gesto amichevole, tanto che decise di svelarle, almeno, le fattezze dello scrigno contenente la Risposta. Le fece un cenno d’intesa e prese a sfilare il plico dalla busta, sulle sue ginocchia.
La ragazza osservava curiosa. Era emozionato, innegabile. Immaginava, nell’emozione, anche l’espressione che avrebbe potuto dipingersi sul volto della ragazzina dinanzi al Tutto. Probabilmente non avrebbe capito, ma tant’è. La vita, così come la conosciamo, sarebbe finita di lì a poco, non appena avesse decodificato i segreti più reconditi di quel testo. Non sarebbe stata cosa facile, lo sapeva. Avrebbe dovuto violare l’intimità di quelle pagine, giù, a fondo. Non sapeva nemmeno fino a che punto la cosa lo avrebbe coinvolto fisicamente e metafisicamente. Ma era quello.
Mostrò finalmente a alla ragazza il Segreto dei Segreti. Uno strano stupore misto a ironia si affacciò inizialmente sul volto di lei, subito rimpiazzato da qualcosa di simile allo sdegno.
La giovane chiuse il proprio libro. In fretta, prese le sue cose e fuggì via con passo veloce, superò le fontanelle e i giochi dei bambini, attraversò la strada e si sedette, infine, in un caffè. Una volta che ebbe ordinato un cappuccino si accomodò ben bene nella poltrona e riaprì il suo libro. Il vecchio non ne fu sorpreso. C’era da aspettarsi una reazione del genere da un animo semplice. Era stata una leggerezza da parte sua il fingersi in un’aspettativa. Nessun problema, rivolse allora gli occhi al Sacro Testo. Dalla copertina, una bella ragazza bionda, completamente nuda e maggiorata, offriva la sua latteria al lettore, con le gambe leggermente scostate, a forma di invito. Una luce emozionata balenò negli occhi dell’anziano che, con ogni cautela, iniziò a sfogliare l’ultimo numero di Playboy.
Camminava già da parecchio tempo ormai, quando entrò nel paesino. Il campanile battè l’una e il sole, a picco, confermò la diagnosi.
Chissà quanti chilometri indietro aveva lasciato la macchina, di certo nessuno avrebbe potuto rubargliela. L’idea di un carro agricolo con rimorchio gli mise un po’ di ansia, per la verità.
Doveva trovare qualcuno, insomma. Il paese sembrava deserto. Decise di dirigersi verso la chiesa, forse in un bar avrebbe trovato qualcuno. Passava sull’asfalto, tra le villette, come un fantasma. Da dietro una recinzione un cane si mise ad abbaiare, la cosa non gli dispiacque. C’era un gran sole, ma il caldo era smorzato dal gelido silenzio che affollava quel luogo.
Pensò che questa se la sarebbe dovuta ricordare, per uno dei suoi libri. In lontananza vide qualcuno muoversi nei pressi di una siepe. Più vicino, vide degli attrezzi da giardino. Tutto abbandonato, solo un fruscìo da dietro la siepe. « Mi scusi… » fece, a voce forte. Niente. Si ripetè, più forte « Mi scusi, c’è nessuno? » Vide una striscia d’olio scuro per terra e decise di seguirla. Dietro la siepe si rivelò esserci una scuola elementare. Con gli occhi per terra seguì la traccia fin nella carriola da cui gocciolava.
Solo lì si accorse che non si trattava di olio, ma del sangue in libera uscita dal tronco di un uomo che, senza braccia né gambe, era stato posto sul mezzo a fare del macabro giardinaggio. Gli venne un conato di vomito e lo avrebbe di sicuro assecondato se il cadavere non si fosse messo a urlare come un ossesso, strabuzzando gli occhi! Non urla di dolore, ma forsennate, strilli provenienti da una bocca che richiedeva nutrimento! I denti neri e rotti si muovevano nelle mascelle senza sosta. Il bipede, abbandonato ogni proposito di rigurgito, fece un salto indietro, andando a sbattere con la schiena contro qualcosa di duro, come una colonna.
Con un ulteriore balzo si scostò e rimase pietrificato nel trovarsi di fronte un’enorme figura terrificante che lo osservava con desiderio folle. Forse un tempo era stato un uomo, si sarebbe potuto ipotizzare, ora si trattava di qualcosa dalla faccia pallidissima, sfigurata da orride rughe. In testa, solo chiocche di capelli sporchi; le labbra, spaccate fin quasi alle orecchie come rotte nel tentativo di inghiottire un bambino intero, sanguinavano.
Tra i denti, bianchissimi, le gengive perdevano un liquido nero, come della pece.
L’uomo, istintivamente, si mise a correre verso l’edificio scolastico, alle sue spalle il mostro lo inseguiva veloce. Entrato, chiuse la porta dietro a sé, fortunatamente c’era un chiavistello.
L’altro, da fuori, si mise all’opera per abbatterla. Corse al piano superiore rischiando a più riprese di scivolare su grosse chiazze di sangue. In un corridoio, su una sedia, vide una donna che pareva addormentata. Una bella bionda, ma anche lei ricoperta da globuli rossi in libera uscita. Le si avvicinò cauto e quando le alzò la testa notò il pallore anche sul suo viso.
Lei aprì gli occhi e lo guardò. Due occhi splendidi, nerissimi. Subito si perse nel dolce abisso di quello sguardo, senza rendersi conto del passare degli attimi.
Quando lei, per un secondo, chiuse le palpebre non si accorse nemmeno che quella era solo una breve riflessione prima di saltare, vorace, verso la sua faccia.
Gli saltò addosso con le fauci spalancate staccandogli di netto il naso e avventandosi poi sulla scapola. L’uomo la ricacciò seduta con un colpo e, tra le imprecazioni, iniziò a colpirla con tutte le forze. Da in fondo alla scala un grido lo bloccò d’improvviso: il giardiniere era entrato e stava salendo le scale di gran carriera! Lei lo guardava compiaciuta, da sotto la poltiglia di carne e sangue che una volta era stata una donna di tutto rispetto.
Le tirò un ultimo pugno facendola ribaltare sulla sedia e corse via, infilandosi da qualche parte. Si trovava, ora, in un’aula con i banchi rovesciati e le sedie rotte per terra.
Con le ultime energie ne prese una e con quella bloccò l’uscio. Adesso ogni rumore gli giungeva lontano, vedeva solo la porta cedere, pian piano, agli scossoni del mostro. Sfatto, si sedette ad un banco nei pressi di una finestra. Per terra fogli ovunque e carte geografiche rotte.
Al suo fianco stava il cadavere di un bambino con la testa fracassata appoggiata sul piano.
La scostò leggermente, sotto, impregnato di sangue, stava un libro. L’alunno aveva la testa nel testo, si può dire. O, forse, era assorbito dalla lettura.
D’un tratto una luce lo attirò in un armadio che non aveva notato. Si sorprese nel ritrovare qualche forza ancora a sua disposizione, mentre scopriva una scala che, segretamente, scendeva dietro il mobile. Scendeva con la sua barchetta appena appena cabinata per i difficili canali della palude.
Piano, il sole calava oltre l’orizzonte, quando scorse nell’acqua i relitti di una qualche imbarcazione perduta là sotto. Ultimamente la sua vita aveva preso una piega strana, avventurosa, quasi. Gli ultimi avvenimenti avevano messo a dura prova la sua voglia di vivere.
Centinaia di chilometri lo separavano dalla zona neutra dalla quale, chissà poi perché, aveva deciso di uscire tempo addietro. Aveva scoperto come il dolore si possa celare nella tranquillità e come l’avventura possa essere un fantasma dell’apatia. Tuttavia, ancora non sapeva con esattezza cosa pensare, se pensare.
Credeva di essere approdato in una nuova zona neutra, la palude, e non voleva correre il rischio di rompere nuovamente l’armonia di quell’ecosistema. Per questo parlava poco e pensava ancora meno. D’altronde non c’era molto di cui parlare né persone con cui farlo. A parte un vecchio sdentato che viveva in una traballante capanna ai margini di un canale, quasi sulla terraferma. Aveva il vezzo di definirla un’osteria e si spingeva fino a sostenere che fosse stata un albergo quasi di lusso, un tempo.
Dopo aver venduto il legname del relitto e aver trangugiato qualcosa di cattivo dal vecchio parla-per-niente, tornò in cabina e si dedicò alla cassa che aveva ripescato. La fissò lungamente, sdraiato sulla branda. Aveva paura di quello che avrebbe potuto contenere.
Sentiva che, in qualche modo, sarebbe stato qualcosa di distruttivo: aprire quella cassa avrebbe significato un gorgo. Come quando si toglie il tappo ad una vasca piena d’acqua, quell’involucro, una volta dischiuso, avrebbe inghiottito ogni cosa, la sua barca, vecchia e rotta, la palude puzzolente, la notte anonima, il vecchio cialtrone… lui stesso e la sua voglia di vivere.
Alla fine, svegliatosi per l’ennesima volta nel mezzo del buio tenue, come se qualcuno lo tormentasse segretamente per costringerlo ad aprire quello scrigno plebeo ripescato da acque melmose, si risolse a schiodare le assi di legno. Con un pezzo di ferro di recupero armeggiò finché i chiodi non cedettero e, in un rumore simile a uno sparo, la cassa si scoperchiò. Per un attimo fuori le rane tacquero.
Si affacciò al buco quadrato col ritmo un poco accelerato. Con sollievo, ne trasse degli oggetti del tutto innocui, alcune torce, un coltello, un paio di riviste (che subito lanciò fuori bordo), due o tre libri classici. Niente di più, o quasi. La stessa forza che prima lo teneva sveglio ora spingeva la sua testa a considerare il fondo del contenitore, là dove giacevano, inconsapevoli, alcuni fogli tenuti insieme con dello spago.
Quello che temeva era successo, senza fragore, nessuna esplosione, nessun gorgo.
Rassegnato, obbedì a sé stesso. Prese i fogli bianchi, rimise il coperchio alla scatola e la usò come tavolo. Si sedette su di uno sgabello che passava di là e, alla luce di una lampada a petrolio, si mise a scrivere.
di Andrea Filippini, I classificato, Sez. Racconti; All rights reserved
Nota biografica dell’autore
Nato a Varese il 2 ottobre 1986, passa l’infanzia a Varano Borghi, piccolo comune della provincia.
All’età di undici anni si trasferisce ad Atene, dove vivrà per quattro anni. In Grecia, grazie alla frequentazione di un ambiente altamente stimolante, avrà modo di sviluppare uno spiccata capacità nell’osservare le persone e nel tratteggiarne i caratteri. Da sempre affascinato dalle capacità magiche della lettura, è in questo periodo che si cimenta nei primi scritti.
Rientrato in Italia, completa la scuola dell’obbligo scegliendo lo studio dei classici, cosa che consentirà un’evoluzione fondamentale soprattutto nella scelta dei contenuti che i suoi scritti pretendono di trasmettere.
L’esperienza universitaria a Pavia, prima, a Forlì e Grenoble poi, offrono molteplici spunti per un’evoluzione soprattutto stilistica, alla ricerca di un registro più immediato ed originale che permetta un contatto diretto tra l’emozione che vuole essere espressa e la sensibilità del lettore. Nel 2012, in marzo, si laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche.