I funerali dell’avvocato Giorgio Ambrosoli vengono celebrati il 14 luglio 1979 a Milano, nella chiesa di San Vittore al Corpo. Tra chi vi prende parte, non c’è nessun rappresentante ufficiale delle istituzioni. Quelle istituzioni che pure l’”unico commissario liquidatore” dell’impero finanziario di Michele Sindona aveva servito a dispetto della mole di lavoro, delle pressioni, dei poteri forti coinvolti. E a dispetto delle minacce, diventate reali tre giorni prima di quelle esequie, l’11 luglio.
Tra chi partecipa, però, ci sono i collaboratori dell’avvocato. Coloro con cui, dal 27 settembre 1974, giorno della nomina da parte del ministero del Tesoro e dell’allora governatore della Banca d’Italia, Guido Carli (sostituito l’anno successivo, dopo le sue dimissioni, da Paolo Baffi, altro personaggio che pagherà con accuse ingiuste e un periodo di carcere insieme al vicedirettore generale Mario Sarcinelli l’essersi opposto ai potenti della finanza italiana), aveva condiviso anni di lavoro. Di fronte al feretro ci sono Baffi, i giudici Guido Viola e Ovilio Urbisci. E poi c’è un uomo che appartiene alla guardia di finanza e che non stacca gli occhi dalla bara. La fissa intensamente, senza battere ciglio, rigido. Si chiama Silvio Novembre ed è un maresciallo della guardia di finanza, entrato nelle fiamme gialle quasi per caso e diventato a sua volta un fedele servitore dello Stato. O almeno così credeva.
Per la verità in quello Stato aveva smesso di crederci già da un po’. Se combatti contro poteri occulti e dichiaratamente illegali, come contro una certa mafia, puoi resistere perché in qualche modo sai da che parte stanno i buoni e i cattivi. Ma quando i cattivi vestono i panni dei buoni e sono tra coloro che dovresti servire, allora le tue convinzioni vacillano. E crollano.
Ecco. Di fronte al feretro di Giorgio Ambrosoli, assassinato con quattro colpi d’arma da fuoco, Silvio Novembre, servitore dello Stato smette definitivamente di credere nello Stato e giura silenziosamente che non lo servirà mai più. Almeno non quello Stato che, nella migliore delle ipotesi, non fa niente per difendere i suoi alleati più onesti.
Se fosse stato ancora vivo, un altro uomo della guardia di finanza, avrebbe potuto dargli ragione. Di questa vicenda ne parlano l’ex radicale Massimo Teodori e la commissione d’inchiesta sulla P2, di cui Teodori ha fatto parte. Ma ogni tanto viene ripresa anche altrove. Come ha fatto qualche tempo fa “Avvenimenti Italiani” attraverso il maresciallo di artiglieria Paolo Messina e il giornalista Michele Gambino, o lo scrittore Giuseppe Genna con il suo romanzo “Dies Irae”. È la vicenda di Salvatore Florio, colonnello della guardia di finanza morto con il suo autista il 26 luglio 1978 in un incidente stradale sull’autostrada del Brennero. I due militari erano partiti da Vipiteno e stavano viaggiando alla volta di Roma quando, nei pressi del casello di Carpi, il veicolo sbandò per «cause non accertate». Così si scrisse sulle relazioni di servizio, ma Miriam Cappuccio, la moglie da cui l’ufficiale ha avuto due figli, ascoltata anche dai membri della commissione d’inchiesta sulla P2, ha sempre cercato di dire che, forse, non proprio di fatto accidentale si trattava.
Se capita di non voler accettare la morte improvvisa e fortuita di un congiunto e di voler per forza cercare motivazioni che risiedono altrove, a far riflettere su questa vicenda dovrebbero essere i trascorsi del colonnello Florio. Catanese d’origine, quando muore non ha nemmeno sessant’anni e il suo nome è legato a inchieste di peso tutt’altro che marginale, come quelle sulla loggia P2 di Licio Gelli, lo scandalo dei petroli e il fascicolo MiFoBiali, progetto che prevedeva forti legami tra un faccendiere romano, Mario Foligni, e la Libia di Muammar Gheddafi. E in tutto questo di non secondario scenario è il lavoro che conduceva l’agenzia Op di Mino Pecorelli, ucciso a Roma qualche mese dopo la morte di Florio, il 20 marzo 1979.
Le attività investigative condotte fin dal 1974 sull’ex venerabile, al colonnello avevano creato non pochi problemi all’interno delle fiamme gialle. Florio, come capiterà a Silvio Novembre, era entrato in conflitto con alti ufficiali. Fino ad arrivare al generale Raffaele Giudice, nominato a sorpresa comandante generale (quando verrà rinvenuto l’elenco degli iscritti, si scoprirà che era affiliato alla P2) e coinvolto nel secondo caso seguito sempre dal colonnello, il dossier MiFoBiali. Florio, nei suoi ultimi anni, aveva resistito anche alle lusinghe che volevano attirarlo nella rete di Gelli ed erano stati allora trasferimenti, difficoltà sempre maggiori con l’amministrazione e in particolare con il capo di Stato maggiore, il colonnello Donato Lo Prete, e il suo pari grado Giuseppe Trisolini (altri piduisti). Infine quella frase, pronunciata un mese prima di morire di fronte a Giudice che gli aveva imposto un’ispezione: «Le dirò presto tutto quello che sono venuto a sapere su di lei».
Una parabola, quella del colonnello Florio (le cui informative datate 1974 e redatte da un capitano, Luciano Rossi, saranno ritrovate nel 1981 a Castiglion Fibocchi, presso l’azienda Gioele di Gelli, e appena dopo Rossi si suiciderà), che non è dissimile dalla vicenda di Silvio Novembre. Fatta salva la conclusione differente, sarà una vita di intimidazioni, minacce di trasferimento (nel caso di Florio minacce attuate), ordini eseguiti come il giuramento sulla divisa e sulla Costituzione comanda, ma diventati boomerang contro chi quegli ordini li ha eseguiti.
Silvio Novembre, maresciallo delle fiamme gialle, quando il 14 luglio 1979 partecipa ai funerali di Giorgio Ambrosoli ha 45 anni. È nato nel 1934 a Piacenza ed è di fibra forte. Una fibra che gli hanno regalato i suoi genitori, gente semplice, che si ammazza di lavoro dalla mattina alla sera e non di rado anche oltre. Il padre, da muratore qual era, fa “carriera” nel pubblico quando diventa ferroviere, ma i soldi non bastano mai per mantenere Silvio e i suoi quattro fratelli. Di studiare, nella sua famiglia, non c’è possibilità. E così il futuro maresciallo Novembre si prende la licenza di scuola media e va a fare il manovale.
La guerra è finita da tre anni e c’è da ricostruire. Ma c’è anche da migliorare, rispetto alle condizioni anteguerra. Così Silvio, adolescente, finisce a scavare buche per piantare tralicci della nuova linea elettrica a suon di colpi di pala e piccone. E il ragazzo, diventato un uomo di un un metro e 80 tutto muscoli, si fa braccia sempre più robuste.
Fino ai 18 anni va avanti così quando, allacciata un’amicizia con un ingegnere che lavora per la società che sta elettrificando il piacentino, la Edison, fa il primo salto di qualità e passa tra i tecnici. E incontra le squadre della guardia di finanza che periodicamente arrivano a controllare che sia tutto a posto con tasse e concessioni. Silvio è affascinato dalle loro divise e inizia a cullare l’idea di vestirne una. Così chiede come si fa a entrare e i militari glielo spiegano. Ma quando fa domanda Silvio si “attrezza” perché non venga rifiutata e va a parlare con don Francesco Arfini, parroco della chiesa piacentina di San Savino. Che sarà pure un sacerdote di provincia, ma ha studiato con Agostino Casaroli, ai tempi già sostituto della segreteria di Stato del Vaticano e nato in quel di Castel San Giovanni. La “raccomandazione” è cosa fatta e – si chiede Corrado Stajano nel libro “Un eroe borghese” – «l’avrà saputo lo Ior, l’avrà saputo Monsignor Marcinkus?»
Ma non siamo ancora arrivati al tempo degli scandali della Banca Privata Italiana di Michele Sindona e poi del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Manca ancora una ventina d’anni all’inizio di quella storia. Qui siamo nel 1953, anno in cui il commercialista siciliano è appena approdato a Milano nutrendo la sua lista di clienti a suon di disinvoltura contabile e fiscale e il banchiere che morirà nel giugno 1982 impiccato sotto il ponte dei Frati Neri di Londra è ancora ai gradini più bassi dell’istituto che arriverà a dirigere.
Siamo precisamente al 13 gennaio 1953 quando la visita di idoneità per Silvio Novembre si trasforma in un arruolamento immediato e nella spedizione altrettanto immediata al corso allievi delle fiamme gialle di Predazzo, provincia di Trento. Negli anni successivi gira mezza Italia. Macugnaga, Domodossola, Genova, Lido di Ostia per la scuola sottufficiali. E poi ancora l’Alto Adige, il Veneto, il Friuli, dove a San Vito al Tagliamento conosce una ragazza che sposerà nel 1962.
Ma il trottare di Silvio Novembre non è ancora finito. Venezia, San Donà di Piave e nel 1963 l’approdo a Brescia, dove inizia un percorso di specializzazione. L’Italia sta cambiando e così anche molti suoi aspetti, quelli amministrativi compresi. Si sta andando oltre fatture attive e passive, partita doppia, versamenti all’erario. Si sta andando verso una guardia di finanza che si intende di tecnica bancaria, di diritto commerciale, di transazioni internazionali, di estero su estero. Non potrebbe essere altrimenti negli anni del boom economico che, se significano stipendi più arrotondati per operai e impiegati, generano anche profitti più lauti per gli imprenditori. Ma gli incassi per lo Stato non crescono in modo proporzionale e il vizio all’evasione fiscale, anche allora, passa per flussi di denaro che vanno fuori confine, per bilanci truccati al ribasso, per utili tagliuzzati da sottrarre alle casse romane. Occorre gli ci si professionalizzi per star dietro a questo mondo sempre più frenetico e inabissato e Silvio Novembre non si tira indietro. Studia, si aggiorna, si specializza.
Lo fa al punto che nel 1971, quando il suo comandante si trasferisce a Milano, lo chiama in via Fabio Filzi con sé. Novembre non ne gioisce particolarmente. Ha due figlie piccole, Caterina, nata nel 1963, e Isabella, nel 1968, e a Brescia, roccaforte di piccole imprese che costituiscono un nerbo importante del miracolo economico italiano, resterebbe ancora. Ma l’Amministrazione chiama e lui risponde.
Nel capoluogo lombardo trascorre tre anni di lavoro duro e intessuto di indagini importanti, come quella che ha riguardato l’Italgrani e il suo “re”, Francesco Ambrogio, grande amico del ras della politica partenopea Paolo Cirino Pomicino e una vita imprenditoriale tra scalate di successo e guai con la giustizia, conclusasi nell’aprile 2009 con l’omicidio suo e della moglie, avvenuto nella loro villa in via Discesa Gaiola a Posillipo, Napoli. Ma, tornando indietro, le ferie dell’estate 1974 Silvio Novembre le inizia tirando un sospiro di sollievo per il raggiunto riposo, per quanto consapevole che, forse, l’autunno gli riserverà giornate di lavoro ancora più serrate. Michele Sindona, il “salvatore della lira” per andreottiana investituta, sta cadendo in disgrazia e la disgrazia aumenta il successivo 4 ottobre, quando il giudice istruttore Ovilio Urbisci chiede che venga arrestato per false comunicazioni e illegale ripartizione degli utili, reati a cui si aggiunge venti giorni dopo la bancarotta fraudolenta.
Al “caso Sindona” lavora anche il pubblico ministero Guido Viola. Ma quella vicenda è grande, enorme, e il magistrato ha bisogno di tutto il supporto possibile. Così convoca i suoi referenti delle fiamme gialle e chiede che gli assegnino alcuni uomini, un pool si direbbe oggi.
«Novembre, ci vuoi entrare?» gli viene chiesto al comando.
Novembre, forse ricordando i presagi dell’estate precedente, non esista a rispondere di sì. Lo si consideri già al lavoro, insieme a un tenente, a tre marescialli e a due brigadieri che ne faranno parte. Gli stessi che, nel 1981, saranno a fianco di Giuliano Turone e di Gherardo Colombo che, alla ricerca della lista dei cinquecento (un elenco di cittadini italiani che avevano utilizzato il sistema Sindona per esportare capitali), inciamperanno su un’altra lista. Quella degli iscritti alla loggia massonica P2 di Licio Gelli, la «più grande vicenda criminale» della Prima Repubblica di allora.
Ecco dunque la guardia di finanza entrare all’inizio con venti uomini nell’edificio di via Boito, a pochi passi dalla Scala di Milano, puntando al quarto piano, dove ci sono gli uffici che occupava proprio Michele Sindona quando era ancora in sella al suo impero. Loro, inviati lì per conto dell’autorità giudiziaria, varcano la soglia per la prima volta perché devono effettuare delle perquisizioni. I magistrati non sanno ancora bene quali documenti cercare, devono recuperare «indizi e prove in relazione ai reati che si suppongono» e così fanno mettendo i sigilli a una stanza, un armadio o una cassetta quando l’hanno ripassata.
Al primo piano dello stesso edificio c’è un altro inquilino. È il commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, si chiama Giorgio Ambrosoli ed è l’avvocato inviato per ricostruire prima lo stato passivo e quello attivo dell’istituto di credito. Non gradisce la presenza delle fiamme gialle e teme ingerenze, controlli. Non fa alcuno sforzo per nascondere la sua antipatia per i militari, che la ricambiano. Ma con l’avvocato ci devono a che fare quotidianamente, fosse solo per fargli firmare i verbali delle attività svolte nel corso del giorno. Ogni sera si ripete la stessa scena: i finanziari scendono al piano di Ambrosoli e sono costretti ad attendere, talvolta anche ore, perché questi si liberi e firmi i documenti che gli sottopongono.
Una mattina raccontano a Silvio Novembre il ripetersi dell’episodio sempre uguale a se stesso. Novembre, fino a quel momento in diffidente silenzio, decide che non vuole restare con la bocca chiusa e va a cercare l’avvocato. Nel suo ufficio non c’è, si trova in sala riunioni insieme ai suoi collaboratori, Pino Gusmaroli, l’avvocato Sinibaldo Tino e il professore Vittorio Coda.
Novembre per un po’ aspetta, ma poi interrompe la riunione.
«Non vede che sono occupato?» lo rimbecca Ambrosoli.
Il maresciallo gli risponde per le rime e, se all’inizio i toni si alzano, l’avvocato cerca di mantenere la calma e gli chiede di attendere altri quindici o venti minuti al massimo. Novembre non ci sente, protesta e Ambrosoli allora dirige il suo nervosismo verso Guido Viola, che non l’avrebbe avvertito della coabitazione forzata con la guardia di finanza né delle attività di polizia giudiziaria che sarebbe state condotte in parallelo alle sue.
Poi, a un certo punto della discussione, l’avvocato se ne esce con una frase inaspettata: «Maresciallo, lei ha mangiato?»
«No, ma se dobbiamo litigare è meglio farlo qui».
«Ci siamo spiegati a sufficienza. Vede, non sono di quelli che si fidano subito di tutto e di tutti. Io concedo la mia fiducia solo dopo aver conosciuto bene il prossimo. D’accordo, dobbiamo lavorare insieme, però gradirei avere rapporti con una sola persona, sempre la stessa, non un giorno con l’una e il giorno dopo con l’altra. Sarà lei l’interlocutore».
Non ci si aspetti a questo punto un happy end tra l’avvocato Ambrosoli e il maresciallo Novembre. Ma è un inizio, per quanto spigoloso e non scevro di successivi momenti di tensione, tra due uomini a cui hanno insegnato a essere persone perbene. A svolgere il proprio lavoro sino in fondo, onestamente, come ogni cittadino dovrebbe fare. E invece va a finire che se ci sono coloro che lo fanno fino all’estremo rischio, fino all’esposizione personale, diventano eroi. Eroi borghesi.
Ma prima Novembre e Ambrosoli diventano collaboratori, stretti collaboratori, e poi amici. Che l’amicizia diventi il sentimento che lega anche personalmente i due accade nel 1975, quando devono affrontare la questione Fasco, la holding che ha sede nel Liechtenstein e che rappresenta il cuore del sistema sindoniano e che vedrà la sinergia tra guardia di finanza, commissario liquidatore e magistratura. La Finanbank, altra emanazione del castello finanziario del banchiere siciliano, ricorda che il consiglio d’amministrazione sta per scadere e che ci sono 4 mila azioni bloccate in vista dell’assemblea che deve svolgersi nel 1976 in Lussemburgo. Ambrosoli riesce in un blitz a liberare le azioni, trasferendole altrove, e a revocare gli incarichi agli uomini di Sindona.
Racconta direttamente Silvio Novembre nel testo “La fatica della legalità”, raccolto da Maurizio De Luca e pubblicato la prima volta su Micromega (numero 1/1995) e poi nel saggio “Ambrosoli. Nel rispetto di quei valori” (Interlinea, 1997):
«Le revoche delle procure e il rinnovamento delle cariche furono il grimaldello per entrare direttamente nel cuore del sistema finanziario costruito da Michele Sindona. Ovviamente tutto questo generò una reazione violenta da parte di Sindona, sia legale che paralegale. Vi furono formali opposizioni in Liechtenstein all’assemblea, venne chiesto il sequestro delle azioni. Giorgio Ambrosoli venne direttamente denunciato per malversazione, patrocinio infedele e altra roba di questo genere».
La giornata di lavoro dei finanziari finisce alle 17.30 e il pool, rimasto di quattro uomini e al cui comando si mette lo stesso Novembre (a rimanere ci sono anche il maresciallo Francesco Carluccio e i brigadieri Orlando Gotelli e Gaetano De Gennaro), si dirige verso il comando di via Filzi per far rapporto. Novembre invece scende di tre piani e inizia il “secondo turno”, quello di braccio destro personale dell’avvocato Ambrosoli.
Passano le notti così, quei due. Con Ambrosoli che ha bisogno del supporto di qualcuno che si intenda di polizia giudiziaria, dato che il suo lavoro sta sempre più deviando verso una serie di reati, per di più commessi a livello internazionale, dai quali non riuscirebbe a districarsi da solo. Ormai, in quelle notti, diventate in breve mesi, al lavoro non si sono più un maresciallo delle fiamme gialle e un commissario liquidatore e nemmeno due collaboratori. Ci sono due amici consapevoli di condividere sempre di più un destino solitario contro un potere forte, molto forte.
Già dalle cifre, impressionanti, si capisce. Quando nell’autunno del 1974 viene concluso il lavoro sullo stato passivo, necessario per quantificare i crediti da esigere e recuperarli (ma soprattutto per ammette i creditori al recupero del loro denaro: tra questi sarà escluso il potente Ior di monsignor Paul Casimir Marcinkus), le perdite dell’impero finanziario di Sindona ammontano a 207 miliardi di lire. A questo punto Ambrosoli chiede lo stato di insolvenza e l’avvio della relativa attività giudiziaria.
Iniziano qui le accuse esplicite contro l’avvocato di eccesso di zelo, di accanimento, di Torquemada della finanza e del libero mercato. Del comunista. Il commercialista siciliano, infatti, come tale lo etichetta dagli Stati Uniti, tanto negli incontri pubblici quanto in quelli privati, la peggiore invettiva per un uomo – con un passato nel partito monarchico e con un’impostazione mentale da liberale – che con la falce e il martello mai ci aveva avuto a che fare.
Va detto poi che non è stato Ambrosoli ma il pool di finanzieri a iniziare per primo la ricostruzione delle scatole cinesi societarie, delle imprese estere, dei paradisi fiscali attraverso cui transitano i capitali che finiscono nel nulla. Ormai i lavori degli uomini inviati dal giudice istruttore Ovilio Urbisci e dal sostituto procuratore Guido Viola e il liquidatore devono viaggiare in parallelo più strettamente. È una ragnatela che riunisce ambienti mafiosi, massoneria, vertici vaticani, politica, finanziamento illecito ai partiti (soprattutto alla Democrazia Cristiana, ma anche ai socialdemocratici), servizi segreti.
E c’erano gli accordi segreti e i versamenti in nero con l’Ente Minerario Siciliano capitanato da Graziano Verzotto, il senatore inviato in Sicilia a metà degli anni Cinquanta da Amintore Fanfani per «far ordine» nella Dc e il cui nome si legherà alla morte presidente dell’Eni, Enrico Mattei, e alla scomparsa del giornalista dell’”Ora” di Palermo Mauro De Mauro. Ed ecco cosa ne emerge, dalle parole di Corrado Stajano:
«I misteri di Sindona svelano la sua anima nera. Che seguita ad aleggiare, là dentro. Giorgio Ambrosoli e gli altri che lavorano nelle stanze della Banca Privata Italiana hanno di continuo la percezione dell’onnipotenza del banchiere. I documenti ufficiali, i verbali dei consigli d’amministrazione e dei collegi sindacali, ma anche le carte non ufficiali, le lettere, gli appunti non rivelano mai il più marginale dissenso. Sindona fa ciò che vuole, come vuole, quando vuole. Non c’è mai neppure una parvenza di discussione, di disaccordo, dissociazione, confronto. È un sistema totalitario, il sistema Sindona, un sistema assoluto senza mai un accenno di statuto. Alle compiacenze e alle protezioni di fuori corrisponde l’ubbidienza assoluta di dentro».
Questa «ubbidienza assoluta» però non dimora in Ambrosoli né in Novembre. E nemmeno in Gusmaroli, Viola, Urbisci e Tino. È sostanzialmente questo il team che dà l’assalto all’impero del banchiere, che vi si insidia per comprenderlo e per cercare di rifondere chi ci sta perdendo i soldi di una vita di lavoro. Ed è un team solo, che non avrà l’appoggio del parlamento, ma nemmeno quello di chi contro quel tipo di finanza, di truffa, dovrebbe scagliarsi ancora peggio di Ambrosoli e dei suoi uomini. Eppure nemmeno il Partito Comunista si muove, la sua stampa evita quando può si raccontarne sulle sue pagine.
Insomma, i temporanei inquilini dell’edificio di via Boito, “perseguitati” dall’ossessiva presenza degli originami fatti da Sindona, lavorano nella solitudine più totale, già di per sé pesante. Ma restasse tale, la situazione, ci sarebbe di che tirare un sospiro. E invece no, si aggiunge dell’altro. Novembre, quando va al comando della finanza, percepisce prima qualche voce e domande che gli sembrano andare oltre la retorica.
«Lei è portato a vedere il male anche quando e dove non c’è. Che cos’è successo mai? Se si dovesse fare un’ispezione in tutte le banche, chi si salverebbe?»
Se già prima il maresciallo prestava attenzione a tutto ciò che faceva e diceva, ora diventa più circospetto. Si sente osservato, ascoltato, incalzato da domande dei superiori che, da retoriche, diventano più circostanziate. Tentano di carpirgli dettagli del suo lavoro e un’escalation in negativo si evidenzia improvvisa quando salta fuori la questione della fantomatica – e mai ritrovata – lista dei cinquecento. Tanto che si prova una prima volta a farlo fuori dall’indagine, messo a lavorare in archivio, ma senza troppa convinzione. Così Novembre resta al suo posto, per quanto l’avvocato Rodolfo Guzzi, legale di Michele Sindona, annoti sulla agenda, al giorno 4 novembre 1977, «riunione con Gelli. Sostituzione di Novembre».
Il secondo tentativo è assestato più in profondità. Qualcuno, al comando generale, ha chiesto il trasferimento del maresciallo senza che lui ne sapesse nulla e lo viene a sapere solo perché un sottufficiale glielo dice. Novembre ne parla con Urbisci e con Viola e dice loro anche di non intervenire, proverà a vedersela lui. Così fa perché a evitare quel provvedimento punitivo ci pensa il colonnello che da Brescia l’aveva voluto con lui a Milano. Anche stavolta niente trasferimento, ma all’ennesimo tentativo, giunto ormai in dirittura d’arrivo, l’ufficiale non può fare niente e appare pronto a quel punto un bell’incarico lontano da Milano, sul Monte Bianco. A evitarlo ci riesce però il sostituto procuratore Guido Viola, che si rivolge direttamente al comando generale.
Se con uno spostamento d’imperio non sembra essere possibile raggiungere alcun risultato, si cambia tattica. Del resto ogni uomo ha il suo prezzo, sostiene qualcuno, basta offrire quanto basta. Niente neanche con le lusinghe di un posto migliore, di un avanzamento di carriera, di qualche emolumento per smettere di essere il mastino contro Sindona. Allora si cambia ancora strategia e si passa alle minacce. Ma Novembre è uno tosto.
Un uomo tosto e tutto d’un pezzo, ma con un unico punto debole: la moglie gravemente malata, senza speranze di cura, almeno in Italia (morirà l’11 dicembre 1979, pochi mesi dopo Ambrosoli, segnando ancora più profondamente la disperazione che coglie il maresciallo in quel periodo). E allora ecco che qualcuno ventila la possibilità di farla ricoverare a Houston, negli Stati Uniti, dove si stanno sperimentando nuovi protocolli terapeutici. Troppo caro per un maresciallo della guardia di finanza? Macché, ci penseranno loro, gli amici che potrebbe avere se solo si dimostrasse un po’ meno più intransigente.
Novembre inizia a essere davvero preoccupato. È spaventato perché, esaurite tutte le forme di seduzione possibile, tornano le minacce e, come in un film poliziesco ambientato proprio in quegli anni, il maresciallo non esce più disarmato e a Milano – dove ancora poco tempo fa qualcuno aveva l’ardire di sostenere che mafia non ci fosse – se ne va in giro stringendo il calcio della rivoltella nascosta dalla giacca.
A indagare sul conto di Michele Sindona nel frattempo ci si sono messi anche gli americani, che pochi giorno dopo la dichiarazione di fallimento della Banca Privata Italiana, dichiarano fallita anche la Franklin National Bank. Ambrosoli e Novembre, quando più avanti verrà chiesto loro, iniziano a collaborare anche con gli inquirenti d’oltreoceano. Il 20 marzo 1979 Michele Sindona viene incriminato per bancarotta anche dall’altra parte dell’Atlantico e dagli Stati Uniti il giudice Thomas Griesa, con l’avvicinarsi del processo che si celebrerà presso la corte federale di New York, avanza una rogatoria internazionale perché ha bisogno dei documenti che gli italiani hanno sulla banca americana. Così Ambrosoli e Novembre dettagliano le fasi dell’acquisto dell’istituto di credito statunitense con denaro altrui, i rapporti fraudolenti con la svizzera Amicor Bank, spiegano come sia stato possibile fare un buco da 40 miliardi di dollari, dimostrano che Sindona ha mentito quando ha risposto alle domande postegli dalla Security and Exchange Commission.
Il livello della rabbia di Sindona cresce inarrestabile, soprattutto dopo il blitz di Ambrosoli. E aumentano le intimidazioni, soprattutto telefoniche, che giungono sia a Novembre che ad Ambrosoli. Il quale arriverà a sentirsi dire: «Non la salvo più perché lei è degno solo di morire ammazzato come un cornuto. Lei è un cornuto e un bastardo».
Poi, a inizio ’79, stop. Il telefono smette di squillare e forse è giunto il momento di poter lavorare in pace. Almeno un po’. Dice Ambrosoli a Novembre: «Sindona ha avuto solide assicurazioni dai suoi referenti politici e ha accantonato l’idea dell’azione violenta». Ma la morte dell’avvocato è già stata decisa e la sentenza verrà eseguita di lì a pochi mesi.
Intanto se le minacce sembrano affievolirsi, altri sono i segnali che continuano a far preoccupare i due uomini. È sera e Silvio Novembre sta aspettando Giorgio Ambrosoli al confine con la Svizzera dopo che l’avvocato è stato a Lugano per parlare con Carlo De Mojana e con il genero di Sindona, Pier Sandro Magnoni, marito di Maria Elisa, due perni del colosso finanziario in disfacimento. Quando Ambrosoli arriva, Novembre vede subito che ha l’aria atterrita.
«Hanno la mia seconda relazione al giudice istruttore, ma ribattuta».
Il documento è uscito dai palazzi di giustizia, qualcuno deve averlo ricopiato e consegnato in mano che non avrebbero dovuto reggerlo. I nemici sono tra loro, se mai ci fosse stato bisogno di un’altra conferma, e non li mollano. E a quel punto in Novembre, consapevole del pericolo che, ancor più di lui, sta correndo l’avvocato, si chiede se senza il suo zelo Ambrosoli sarebbe arrivato così lontano rischiando di venir fatto fuori per questo. Se fosse stato un po’ meno mastino, non avrebbe gli fatto un favore? Ma poi si pente, Novembre, e non se lo domanda più. Loro sono uomini dello Stato e come tali devono andare avanti. E si devono proteggere l’un l’altro.
A questo proposito, il maresciallo dirà:
«Io sono convinto di una cosa. Presi singolarmente eravamo due individui diversi rispetto a quello che siamo diventati lavorando insieme alle stesse cose. L’uno potenziava l’altro e viceversa. Fino al punto di aver tirato fuori un individuo diverso da me e da lui, proprio perché la comunità d’intenti, la simbiosi è stata totale. Questo spesso mi ha fatto pensare che forse senza di me quest’uomo, che pure era una persona perbene e piena di valori, si sarebbe comportato in maniera diversa».
Novembre, così, all’insaputa dell’avvocato si mette a fargli una scorta silenziosa, sotto casa, dove trascorre le notti all’interno della sua auto e la pistola a portata di mano. Racconterà alla stampa nel luglio 2000, in una delle rare interviste rilasciate:
«[Una scorta vera e propria] non l’ha mai voluta. Nelle ultime settimane, io ho vigilato su di lui, a sua insaputa. Ovviamente, se n’è accorto. Cosa ha fatto? Mi ha sgridato, bonariamente. Gli uomini riservati sono fatti così». E in proposito aveva già raccontato altrove: «Sentivo che non era sufficiente fare quello che dovevo fare in banca. In quel momento rappresentavo più di [Ambrosoli] lo Stato proprio per la mia professione. Tra i miei compiti allora c’era anche quello di difenderlo, visto che altri non provvedevano. Oltre al senso del dovere poi, a spingermi c’era anche l’amicizia».
Vanno avanti anche quando il 13 giugno 1979 Ambrosoli fa una scoperta nello scantinato della Banca Privata Italiana. È l’episodio che Novembre chiama della «pistola segata». Il liquidatore scende perché ha bisogno di prendere un fascicolo dall’archivio, ma su un bidone dei rifiuti trova una 7.65 fatta a pezzi e con le componenti letteralmente segate. Dal numero di matricola si risale alle armi dei portavalori custodite nella banca. La maggior parte è stata venduta e nella cassaforte, di cui è rimasta solo una chiave dopo che il custode ha perduto la sua (l’altra ce l’ha Ambrosoli e l’altra sarà ritrovata il mattino dopo nel cassetto di una scrivania) ne sono rimasti dieci sulle quindici che c’erano. Ancora una minaccia, una delle ultime.
E in riferimento a questo episodio, Novembre racconta ancora in “La fatica della legalità”:
«Il significato simbolico di questa messa in scena davanti all’archivio, nel seminterrato, parve subito chiaro: volevano farci sapere che non potevamo assolutamente sentirci sicuri neppure dentro la banca e che era stata presa la decisione di farci a pezzi. Tutti o solo alcuni di noi. Come quella pistola. Lo capimmo bene e subito».
Non c’è più scampo dunque per Giorgio Ambrosoli, che viene ammazzato l’11 luglio 1979 appena fuori da una trattoria milanese dove aveva trascorso una serata con gli amici, dopo aver deposto di fronte ai giudici americani. Muore per mano di un killer inviato da Michele Sindona, Joseph Aricò. «Mi scusi, avvocato Ambrosoli», gli dirà prima di sparare quattro colpi di pistola e guadagnarsi i cinquanta mila dollari promessigli dal banchiere siciliano.
E Silvio Novembre, di fronte al feretro dell’uomo di cui è stato collaboratore e amico, ha preso anche un’altra decisione, oltre a quella di non servire più chi abbandona i suoi servitori migliori: lasciare la guardia di finanza. Vi resterà ancora per un po’ di tempo, fino al 1982, per affiancare i tre liquidatori che porteranno avanti e concluderanno il lavoro dell’avvocato. C’è da fare ancora il recupero credito, che terminerà solo nel luglio 1987 con la cessione del residuo attivo alla Banca Commerciale Italiana. Ma a quel punto, Silvio Novembre non è più un maresciallo delle fiamme gialle. È un uomo che ha visto morire un amico con cui aveva creduto di far qualcosa per lo Stato.
Il 1 aprile 1995 Monica Zappelli, giornalista di “I nuovi siciliani”, gli ha chiesto se considerasse finito il suo lavoro, quando scrisse la lettera di congedo.
«No. L’ho fatto come atto di “ribellione”. In quegli anni terribili vedevo morire, oltre a Giorgio Ambrosoli, tantissime altre persone, non solo tra i servitori dello Stato. Mi era diventato difficile continuare a osservare il giuramento con lo stesso spirito con cui l’avevo osservato fino ad allora. [Il fatto di non essermi arreso lo devo] all’abitudine a fare il proprio dovere, sempre e comunque. Non nel nome di un pezzo di Stato, o degli uomini che in quel momento rappresentavano lo Stato, ma in nome dello Stato con la “esse” maiuscola, in nome di tutti, della collettività. Con grande naturalezza perché erano valori ormai insiti, già metabolizzati. Non si aveva la sensazione di fare cose eccezionali».
Probabilmente gioca a favore dell’«atto di ribellione» del maresciallo anche un episodio che accade nelle ore immediatamente successive al delitto Ambrosoli. Novembre non è a Milano, era partito per Bibbione dove si trovava la moglie, le cui condizioni si erano improvvisamente aggravate. Quando gli giunge la notizia del delitto, però, Novembre fa dietrofront e torna nel capoluogo lombardo. Ricorda nel testo “La fatica della legalità”:
«Era il giorno dell’autopsia di Ambrosoli. Io ero rientrato annichilito a Milano. Ero disperato. Eravamo in piazzale Morin, dove c’è l’obitorio. Io ero deciso a iniziare subito le indagini. Con me c’era Viola. Eravamo distrutti, squassati nell’anima, ma non eravamo arresi. Con noi c’era un collega di Viola, quello che avrebbe dovuto essere il titolare delle indagini. Ebbene quest’uomo di cui non intendo neppure ricordare il nome ci disse che lui se ne doveva andare in vacanza, che c’era poco da fare, perché tanto delitti come quello erano destinati a restare impuniti. Lo ammetto, gli saltai al collo e ci dovettero dividere. Io non me ne pento».
Ancora parlando con la cronista dei “I nuovi siciliani”, che gli chiederà se prova rancore quando pensa a Sindona e a colui che è sempre stato indicato come suo grande patron, Giulio Andreotti, Novembre risponderà: «Non rancore, disapprovazione. È un’altra cosa. Critica feroce, perché chi doveva comportarsi bene non si è comportato bene, ma non più di questo». Già nell’aprile 1997, al processo per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli che vedeva tra gli imputati anche Giulio Andreotti, sospettato di essere tra i mandanti (sarà poi assolto), Novembre testimonierà di fronte alla corte sostenendo che il “Divo”, nel 1977, voleva che la banca di Sindona fosse salvata, malgrado negasse qualsiasi contatto con il banchiere siciliano a partire dal 1973. E sempre nella primavera del 1997 c’è in corso un altro processo: sempre contro Andreotti, stavolta accusato di aver avuto rapporti con cosa nostra (in questo caso i reati pre-1980 del senatore a vita saranno dichiarati prescritti). Novembre, questa volta, riferirà di un incontro con Sindona quando ormai era latitante anche negli Stati Uniti.
Ancora a proposito di Giulio Andreotti, il 9 settembre 2010 è prevista una puntata della trasmissione “La storia siamo noi” di Giovanni Minoli dedicata al commissario liquidatore della Banca Privata Italiana. L’ormai senatore a vita, davanti alle telecamere della Rai, risponde a una domanda sulle ragioni dell’omicidio Ambrosoli e afferma: «Non voglio sostituirmi alla polizia o ai giudici, certo è una persona che in termini romaneschi se l’ andava cercando». E si scatena il finimondo.
Riporre la divisa però non significa che Novembre abbia smesso di seguire le vicende che uccisero il suo amico fraterno Ambrosoli e che devastarono la sua vita. Il 4 maggio 1998, quando Licio Gelli, uno degli “osservati speciali” da Novembre tornato in abiti civili, scompare nel nulla, l’ex maresciallo non ce la fa a stare zitto e incalzato da Carlo Bonini, ai tempi firma del “Corriere della Sera”, sbotterà:
«Amareggiato? Mi chiede se sono amareggiato? Io sono inferocito, inferocito come una bestia, altro che amareggiato. Aver fatto scappare quello lì è uno schifo, una cosa indegna di un Paese civile, un insulto alle lacrime e al sangue versati in vent’anni».