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Giorgio Manganelli (15 novembre 1922 – 28 maggio 1990)

Creato il 15 novembre 2012 da Marvigar4

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Giorgio Manganelli

Questa università di scandali e bugie

«La Stampa», 22 agosto 1979

Sono stato un modesto precursore del professor Zevi e circa sei anni fa ho rinunciato alla carriera universitaria. Veramente questa carriera era tutto fuorché un successo giacché, già oltre la cinquantina, ero assistente e incaricato. Fossi rimasto, lo sarei tuttora, con la speranza di diventare di ruolo oltre la sessantina.

Certo, il ritmo insensato della carriera, fulmineo per taluni, paralitico per altri, contribuisce non poco a fare dell’Università quello strano ricettacolo di inflazionati, di gerarchi, di frustrati, di ansiosi da un lato, di ribelli e neghittosi dall’altro, ma si ha l’impressione che questo magazzino di nevrosi non sia tale solo per questo, ma per qualche contraddizione che ne ha corroso la vitalità, che forse era implicita nell’idea stessa che aveva informato la sua nascita.

Le dimissioni di Zevi hanno fatto sussultare il mondo accademico e culturale: strano mondo che pareva deciso a ignorare quel che è oggi l’Università, e ci sarebbe riuscito se le dimissioni di un insegnante stremato dall’insensatezza dei suoi compiti non avesse proclamato quello che tutti sapevano.

Se posso ricordare le mie condizioni quando ho lasciato l’Università, oserei dire che Zevi non se ne è andato, ma è stato cacciato. Zevi si è ammalato di Università – i sintomi più ovvi sono gli esami e le tesi di laurea – come ci si ammala di malattia in una maremma paludosa; non tutti hanno gli anticorpi adeguati, e poi ci si stanca di campare con gli anticorpi.

Le polemiche che sono seguite a quelle dimissioni hanno toccato disordinatamente molti temi; segno che l’Università è diventato un problema non solo complesso, ma isterico. Molti hanno ripreso le antiche invettive contro il ’68; il ’68 fu una ribellione caotica ma perfettamente sensata contro una istituzione devitalizzata, vessatoria, inutile e indispensabile. L’Università era già, ed è diventata sempre più chiaramente, una gigantesca fabbrica che non produce nulla, ma poi lo svende a buon prezzo.

Il ’68 costrinse le gerarchie politiche accademiche a mentire più del necessario, ricordate le ormai archeologiche polemiche sul “docente unico”? Quelle nobili ripulse contro la degradazione del livello dell’insegnamento. Ma non si diceva che quel che veniva giuridicamente negato con argomenti apollinei era praticato dovunque e che assistenti e ordinari facevano ormai l’identico lavoro, corsi, seminari, esami, tesi lauree, né si poteva fare altrimenti, perché gli studenti si moltiplicavano e i professori no. Si rammenta con sdegno la faccenda del 27 obbligatorio, ma io penso che qui siamo di fronte a uno scandalo che va interpretato, era uno scandalo all’incirca come le dimissioni di Zevi.

Nelle polemiche di questi giorni si muovono all’Università due diverse critiche, che non è più socialmente uno strumento di promozione, cioè la laurea non serve a niente per chi ha il progetto di campare – e su questo sono quasi tutti d’accordo – e che, per motivi che si ritengono tecnici, non riesce in modo adeguato a “trasmettere cultura”.

Io ritengo che i due obiettivi non siano né omogenei né sommabili, ma anzi contraddittori. Credo che di questa contraddizione abbia sofferto l’Università, e si siano ammalati molti docenti e molti studenti. Una scuola può insegnare una tecnica, una lingua, un modo di usare strumenti, di mettere assieme e consultare una bibliografia, può insegnare fino ai livelli supremi a leggere, scrivere e far di conto, come a Pinocchio, prototipo di tutti gli studenti irrequieti.

Ora, una scuola che si proponga questi fini deve dare un senso prospettico a questo lavoro, e ha il ragionevole e realistico diritto di scegliere docenti competenti, e di verificare con esami che l’allievo abbia imparato a leggere, scrivere e far di conto. È un esame che ha senso e limiti ben precisi, un esame che si può fare.

Ma supponiamo che l’Università si proponga di “trasmettere cultura”. Non voglio ora chiedere quale sia l’idea universitaria di cultura. Suppongo che sia cosa diversa dal trasmettere una tecnica, e che esiga un insegnante diversamente orientato. Una volta Jung scrisse: “Un insegnante insegna non con ciò che dice, ma con ciò che è”. Mi pare un’eccellente definizione, anche se un po’ allarmante. La cultura del “ciò che è” è qualcosa di psicologicamente totale, che non ha molto a che fare con l’essere colti, così come questo “insegnare” non è propriamente un insegnare ma una funzione dell’eros, l’abbagliante e oscuro impulso al rapporto, all’insieme.

Colui che può esercitare quest’arte coinvolge e insidia socraticamente, è il “costruttore”. Ora, se è possibile saggiare la competenza di chi si propone di “dire”, non esiste esame che possa misurare l’inafferrabile, mercuriale “essere”. Dunque, non può essere scelto, può solo accadere che passi attraverso le maglie della verifica. Ma un altro conflitto, questa volta insolubile, lo aspetta. Se deve esaminare un allievo, può controllare quanto costui ha ricavato da quel che “ha detto”, ma se deve misurare quel che ha insegnato con “ciò che è”, non può farlo, e l’esame diventa il primo irriducibile nucleo di una nevrosi.

Ritorniamo alla vecchia, scandalosa richiesta del 27 per tutti. Era un’aggressiva e sarcastica sfida, ma era anche un sintomo della nevrosi universitaria. E l’inconscio di tutti chiedeva, in quel modo conflittuale, la distruzione dell’esame, perché l’“essere” avesse la meglio sul “dire”. Una provocazione, ma la malattia non l’avevano inventata gli studenti ribelli.



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