Singolare destino, quello di Giorgio Saviane, nato a Castelfranco Veneto nel 1916 e morto a Firenze, sua città d’adozione, nel 2000. In vita, baciato dal successo di pubblico ed elogiato dalla critica più intransigente (Sapegno, Salinari, Pampaloni), vincitore di premi prestigiosi e conteso dagli editori, persino inserito nelle antologie dei Licei, eppure mai citato tra i grandi della narrativa italiana del novecento, sempre sull’orlo dell’oblio postumo, fortemente amato dai pochi che hanno avuto occasione di imbattersi in una nuova edizione di qualche sua opera e ignorato dagli altri. Singolare, del resto, fu la sua personalità: avvocato affermato e scrittore di successo; amante dei piaceri della vita e attraversato in profondità da una costante tensione sacrale; individualista, ma con una sincera apertura alla comunione con gli altri. Il suo stile corposo e fluido, la sua potente forza evocativa, col sostegno del rigore scientifico nelle descrizioni ambientali e socio-psicologiche, dopo aver suscitato l’insolito contemporaneo successo di pubblico e critica, hanno fatto cadere Saviane nella solita trappola schematica della cultura italiana: da una parte, gli intellettuali non gli hanno perdonato il successo, in particolare di Eutanasia di un amore del 1977, un milione di copie vendute e una trasposizione cinematografica che divenne un caso nell’Italia plumbea di quegli anni; dall’altra, l’editoria mainstream l’ha considerato troppo intellettuale, troppo strutturato per arrischiarsi facilmente in nuove edizioni.
Pur avendo mostrato interesse per la letteratura sin dall’adolescenza, solo a quarant’anni suonati, dopo essersi affermato come avvocato, pubblicò il suo primo romanzo, Le due folle. Con Il papa del 1963 salì una prima volta alla ribalta, ottenendo un discreto successo e un posto nella finale del Campiello. Il romanzo è la biografia di una vocazione sincera ma eterodossa, dal seminario al soglio di Pietro, tra crisi, drammi e utopie; una vocazione mossa da uno spirito rivoluzionario che vorrebbe allargare la comprensione di Dio agli aspetti meno luminosi della vita. Un’utopia, questa, di un cristianesimo capace di andare oltre il senso del peccato, di unire “in social catena” al di là di ogni barriera sociale e morale, che ritorna nei successivi Getsemani del 1980 e Voglio parlare con Dio, ultimo romanzo pubblicato nel 1996. Nel già citato Eutanasia di un amore, Premio Bancarella del 1973, si sovrappongono i piani: eros e genitorialità, crisi di un rapporto e aborto, amori e eutanasie, si trascinano verso una deriva di inerzia.
Ma è con Il mare verticale del 1973, il più sperimentale dei suoi romanzi, che Saviane palesa tutto il suo spessore di purosangue della letteratura italiana del secondo novecento. Un martello pneumatico, incubo contemporaneo per ogni risveglio urbano, genera un vortice nevrotico che inghiotte il protagonista, dopo averlo colto nell’incoscienza del dormiveglia, accompagnandolo in una discesa nella scala a chiocciola del proprio DNA, per poi ripercorrere, tappa dopo tappa, il lunghissimo e sempre incompiuto cammino dell’uomo verso la civiltà. Al risveglio, la serenità della donna che dorme nel suo stesso letto, gli rivela l’unica verità e l’unico valore: l’affetto, la condivisione, perché non c’è io senza tu.
In fin dei conti, il timore dell’alienazione, in una società che spinge ad essere altro e contemporaneamente fa perdere la sensibilità verso l’altro, è il vero filo conduttore di tutta l’opera narrativa di Saviane. L’unico antidoto è un rinnovato rapporto con Dio, non più basato su comandamenti immutabili e minacce di eterna punizione, ma sull’amore incondizionato, sulla comprensione, sulla tolleranza.