Magazine Cultura
27 Gennaio 1945. E’ diventata da qualche anno una data cardine, una celebrazione a cui tutto il mondo cerca di contribuire come può, con documentari, con iniziative culturali e incontri che possono arricchire le nostre menti stanche di link di “Principessa Punk” o “Camorra & Love” onnipresenti sul Facebook. Quel giorno si aprirono i cancelli di Auschwitz, non per far entrare nuove reclute naziste ma per liberare i sopravvissuti, quei morti viventi che a malapena trovarono la forza di capire che quell’inferno in cui furono portati fosse finalmente parte del passato.
Un passato che però ritorna e che è oggetto di incubi deliranti, di flash back continui, ignorare e accantonare quanto è successo non può essere umanamente possibile per noi che siamo lontano anni-luce da quell’infamia, figuriamoci per un uomo che l’ha vissuto sulla propria pelle.
Ogni anno in questo periodo leggo un libro sull’argomento della Shoah, non lo chiamo appositamente Olocausto perché per gli ebrei significa sacrificio, un sacrificio che non c’è stato, un sacrificio che agli occhi di tutto il mondo è distruzione e genocidio.
Quest’anno ho letto, su consiglio di una persona che stimo molto, il libro di Nedo Fiano, sopravvissuto ad Auschwitz, ebreo di Firenze, deportato all’età di 19 anni, ha sfidato la sorte, ha combattuto come un leone cercando di non fare una mossa falsa, ha cantato per divertire i nazisti, gli stessi che mandarono il padre, la madre, il fratello, i nipoti e tutto il resto della sua famiglia alle camere a gas perché inadatti al lavoro forzato. “A-545 Il coraggio di vivere” è il titolo del libro, un libro che fa piangere ma che lascia un bagliore di speranza per qualunque problema che si avvicina nella vita di un uomo. Non c’è violenza o terrore nelle sue parole, si percepisce il dolore di un ragazzo che fino a qualche mese prima godeva di ottima salute, andava a scuola e si divertiva con gli amici, ma non c’è un aggettivo volutamente cruente. E’ negli episodi raccontati che Nedo Fiano ci da la possibilità di scorgere l’inferno in cui ha vissuto per due anni, l’ultimo saluto alla madre in particolare è straziante ed è un passaggio ineluttabile in tutti i racconti di ex-prigionieri.
La madre è l’attaccamento alla vita, è la figura della nostra infanzia e non c’è cosa peggiore che essere violentemente strappato dalle sue braccia, era un punto di forza per i nazisti che vedevano le famiglie dissolversi e rendevano tutti più deboli, più arrendevoli alla crudeltà progettata nei campi di sterminio. Nedo ventenne ha visto morire i suoi due cari compagni di tragedia, nel freddo inverno polacco uno di loro non è riuscito a sopravvivere senza gli zoccoli che gli erano stati rubati durante la notte e nessuno ha potuto fare nulla per salvarlo perché in quel luogo ogni gesto magnanime era pericoloso, era visto come un errore.
La sofferenza di queste persone ricorre quotidianamente, un semplice cane può rimembrare quei doberman usati dalle S.S. e ogni giorno scorgono sull’avambraccio destro il tatuaggio con cui un uomo non aveva più un nome, una storia, ma diventava un tassello di quel mosaico crudele. Un numero. Un’unità insignificante.
Liliana Segre, un’altra sopravvissuta di Milano, scrive nel suo libro “Ero come un ermellino che si rotola nel fango e ne esce pulito”, riassume al meglio la mancanza di dignità di quel luogo, la mancanza di emozioni, non è un caso che il luogo di Auschwitz fu un luogo di morte assoluta. Nemmeno gli uccellini avevano voglia di cantare.
Le mie origini ebraiche mi portano a ricordare, ad informarmi e a non tralasciare questa realtà nel mio immaginario, piangere è meglio che ignorare. Una parte della mia famiglia, dei miei antenati hanno trovato fine in campi di concentramento, altri sono sopravvissuti grazie alla buonanima di persone che hanno procurato loro documenti falsi e nascondigli segreti, persone che hanno messo a repentaglio la propria vita per aiutare gli altri. I “Giusti”, sono chiamati così, hanno salvato molte vite umane, poche se consideriamo i numeri della Shoah ma è un segno di umanità troppo grande per confrontarlo con la statistica, se sono qui e posso scrivere questo articolo è anche merito di coloro che hanno permesso a mio nonno, allora ventenne come me ora, di non finire sul primo convoglio verso la Polonia insieme a quei 1022 romani che furono prelevati dal ghetto il 16 Ottobre 1943. Tra questi anche una signora cattolica a cui era stato affidato un bambino ebreo, non lo abbandonò e morì con lui nelle camere a gas.
Noi non abbiamo la possibilità di far rivalere il passato, di fare qualcosa per le vittime della Shoah, però abbiamo il grande compito di non occultare questa storia, di tramandarla senza farle perdere il suo significato.
Non ho volutamente parlato di ebrei, perché nei campi di sterminio ci finirono anche omosessuali, dissidenti politici, zingari, nemici dello stato, un’infinita lista di persone. Tutte innocenti. E sei milioni di innocenti creano un’ottima ragione per soffermarci a riflettere.
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