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“I giudici [di Gerusalemme] sapevano che sarebbe stato quanto mai confortante poter credere che Eichmann era un mostro, anche se in tal caso il processo sarebbe crollato o per lo meno avrebbe perduto tutto il suo interesse. Non si può infatti rivolgersi a tutto il mondo e convocare giornalisti dai quattro angoli della terra per mostrare Barbablù in gabbia. Ma il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce ne erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe assieme, poiché implica ... che questo nuovo tipo di criminale, realmente hostis generis humani, commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male”.
(H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano, p. 282)
Questa affermazione di Hannah Arendt (1906-1975) è tratta dal suo libro ricavato dalle corrispondenze da lei scritte come inviata a Gerusalemme per assistere al processo contro Adolf Eichmann (1906-1962) nel 1961. È un libro assai noto anche perché il titolo dell’edizione italiana ha un notevole appeal (sebbene l’edizione in lingua originale si intitoli semplicemente Eichmann in Jerusalem). Qui un momento del processo.
Ne parlo perché, approssimandosi la giornata della memoria, mi vengono in mente alcune rapsodiche considerazioni. La banalità del male non consiste naturalmente nella sua svalutazione, bensì nella constatazione della sua vicinanza a noi e della sua “scarsa” originalità. Alla nostra mente, che si crede illuminata, appare impossibile non tanto la comparsa di Hitler o Stalin, quanto il fatto che milioni di uomini li abbiano seguiti e abbiano permesso loro di compiere tutti quei crimini. Possibile che fossero tutti pazzi, che fossero dei mostri o dei criminali nati? Naturalmente non lo erano: molti “collaboratori” di Hitler e Stalin erano uomini “normali”, anonimi padri di famiglia, impiegati, operai. Quello che ci sconvolge, quando avvertiamo l’odore del male assoluto, è perciò la consapevolezza che esso venga spesso compiuto non da un mostro, bensì dal nostro vicino di casa. Allora ci sentiamo vulnerabili, indifesi, incapaci di fare alcunché per evitare di diventarne vittime. Siamo a rischio sempre. Sapere che il male è compiuto da un pazzo, da un individuo folle, isolato, ci rassicura perché tali persone sono in genere facilmente individuabili. E si pensa, spesso a torto, che, eliminato l'elemento malato dalla società, tutto possa tornare in ordine. Al contrario, sapere che il male è compiuto da un uomo ordinario, come noi, ci toglie ogni sicurezza.
Dunque, non solo i protagonisti, gli attori del male assoluto spesso sono persone banali; anche le comparse, ossia coloro che, pur sapendo, tacquero e indirettamente favorirono quei crimini, sono uomini banali. A proposito della corresponsabilità di chi sapeva e taceva, un sopravvissuto ad Auschwitz, l’intellettuale belga Jean Améry (1912-1978), scrive queste parole sui “reduci” che stavano dall’altra parte: “Le brave persone che tanto volentieri avrei salvato sono già scomparse nella massa degli indifferenti, dei maligni e infami, delle megere, vecchie e grasse, o giovani e carine, degli ebbri di autorità che ritenevano di commettere un delitto contro lo stato e contro se stessi se non ci apostrofavano con ordini spietati. I troppi non erano SS, ma operai, archivisti, tecnici, dattilografe: e solo una minoranza fra loro era iscritta al partito [nazista]. Messi tutti insieme erano per me il popolo tedesco. Sapevano perfettamente cosa stesse accadendo intorno a loro e che ne fosse di noi, perché al pari nostro sentivano l’odore di bruciato proveniente dal vicino campo di sterminio, e alcuni indossavano abiti che solo il giorno prima, sulle rampe di selezione, erano stati tolti alle vittime sopraggiunte” (Intellettuale a Auschwitz, Bollati-Boringhieri, Torino 1993, pp. 126-127).
Quando ricordiamo i genocidi della storia, quando pensiamo ad Auschwitz, non dovremmo stupirci e domandarci soltanto “perché” sono avvenuti, ma anche “chi” e “che cosa” li ha permessi. Uno sterminio di massa non nasce mai dalla follia, bensì dalla ragione umana, sì, proprio da lei, da quella facoltà che produce il pensiero, la filosofia, a volte l’arte, ma talvolta pure la morte per sé e per gli altri. Quando i giudici di Gerusalemme “scoprirono” che Eichmann era una persona spaventata, misera, con alle spalle una vita ordinaria, colma di frustrazioni, di ambizioni svanite, con una moglie e dei figli, furono in difficoltà. Sia perché Eichmann probabilmente non aveva mai ucciso materialmente nessun ebreo (benché ne avesse organizzato la deportazione, o meglio, come diceva lui, “l’emigrazione”), sia perché l’uomo appariva mite, quasi incredulo di scoprire che aver agito secondo gli ordini e secondo le leggi del suo paese fosse un crimine, sia perché non era il peggior criminale nazista ancora in circolazione.
Quando, durante il processo, Eichmann sostenne di aver letto la Critica della ragion pura di Immanuel Kant e di aver seguito l’etica di quel grande filosofo quantomeno fino a quando era stato incaricato di attuare la soluzione finale, egli era desolatamente sincero. Di certo ingenuo, ma Arendt coglie in questa enorme distorsione del pensiero kantiano un carattere molto diffuso nella Germania hitleriana, abituata a identificare la propria volontà con il principio, con la fonte, che sta dietro a ogni legge. Ecco le sue parole: “Nella filosofia di Kant questa fonte era la ragion pratica; per Eichmann era la volontà del Fuhrer. Buona parte della spaventosa precisione con cui fu attuata la soluzione finale … si può appunto ricondurre alla strana idea, effettivamente molto diffusa in Germania, che essere ligi alla legge non significa semplicemente obbedire, ma anche agire come se si fosse il legislatore che ha stilato la legge a cui si obbedisce. Di qui la convinzione che occorra fare anche di più di ciò che impone il dovere” (La banalità del male, p. 144).
Ma la condotta di Eichmann è stata terribile al di là dei princìpi che egli può aver seguito. Anche se fosse vero che i gerarchi nazisti abbiano "semplicemente" obbedito agli ordini e alle leggi del loro paese, la loro colpa non sarebbe meno grave, perché al di sopra delle leggi delle singole nazioni esistono leggi che impongono il rispetto dell’uomo, della sua vita, della sua dignità. Una legge universale, di carattere non giuridico bensì morale, è più cogente di una disposizione legislativa nazionale, legata alla contingenza dei tempi, dei costumi, a volte delle mode.
Lo sterminio sistematico di una popolazione non è mai frutto di un raptus, ma segue una sua logica, una ragione, un’idea guida, e un’organizzazione, molto precisa, industriale. I lager avevano un’organizzazione affinata: nulla era lasciato al caso, dalle tecniche di sterminio al funzionamento del campo, ai modi per distruggere la personalità e la dignità dei deportati. La vittima veniva spogliata di ogni avere (persino di quei piccoli oggetti che ci danno un’identità, come collanine, braccialetti, occhiali, spazzolino da denti), allontanata dai suoi familiari, resa anonima da un’uniforme, rapata a zero non solo per questioni igieniche ma anche per farla tornare a uno stato pre-puberale, di completa passività. Cosa diventa un essere umano in queste condizioni? Un nulla, un anonimo ammasso di carne, che non possiede più niente, che non può più amare nessuno e che non può più decidere della propria vita. Le SS ammazzavano delle persone già morte da tempo, che non aveva più dignità d’uomini, che apparivano privi di qualunque segno di umanità, sia nel fisico, che nell’animo. Per questo Primo Levi si domandava se “questo” fosse un uomo...
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