Oggi, 10 ottobre, è la Giornata Mondiale dell’Obesità. Un problema che affligge quasi sei milioni di italiani con conseguenze spesso gravi per la salute.
L’Associazione Italiana Obesità (AIO) ha spiegato che solo nel 5% dei casi gli obesi sono affetti da disfunzioni ormonali, lasciando intendere che la lotta ai chili di troppo si può vincere.
Io ho una storia di gioventù da raccontare per chi pensa che i chili di troppo siano un destino ineluttabile e per quei genitori che non si preoccupano quando vedono i loro bambini gonfiarsi a suon di merendine. Speriamo possa essere utile.
A quattordici anni ero grassa. Non proprio obesa (si considera obesità pesare almeno il 60% in più del proprio peso ideale), ma decisamente grassa e in via di “espansione”. Lo scoprii con terrore una domenica mattina d’inverno, una di quelle mattine che nascono uguali a tutte le altre e invece si trasformano in giornate impossibili da dimenticare.Nuda, seduta sul bordo della vasca, in attesa che l’acqua la riempisse, mi permettevo di perdere pigramente tempo leggendo una rivista. Tra una pagina e l’altra il mio sguardo cadde distrattamente oltre il foglio, sulle mie cosce. Fu come vederle per la prima volta. Sulla pelle c’era una fitta serie di strisce verticali biancastre. Ignoravo la causa di quelle antiestetiche linee e mi spaventai a morte.
Chiamai mia madre, che sentenziò: “smagliature”. Per confermare la diagnosi venne interpellata pure mia nonna, la quale disse “è ingrassata troppo in fretta e la pelle non ha retto”. Io cascavo dalle nuvole. Sì, era vero che ultimamente i pantaloni mi andavano stretti, era vero che nelle foto mi sembravo diversa da “prima”, ma lo specchio fino a quel momento mi aveva rimandato l’immagine di una ragazzina carina e felice. Quel giorno capii che portare la 48 significava essere grasse. E che essere grasse non era una cosa piacevole. Eppure continuai a portarmi addosso la mia ciccia superflua fino quasi a vent’anni, incapace di trovare da sola un modo per liberarmene. Insieme ai rotoli di grasso, viaggiavano ogni giorno con me una montagna di complessi, di desideri inespressi e di timori che limitavano le mie possibilità di vivere una vita serena.
Nei giorni che seguirono la scoperta delle mie smagliature, cominciai ad avere l’impressione che la gente mi guardasse in modo diverso. Sentivo su di me sguardi di cui prima non mi sarei mai accorta e tutti sembravano rivolgermi un implicito rimprovero: “Sei troppo ciccia, ragazzina!”. A minare la costruzione della mia già fragile autostima contribuiva l’invidia per una madre magra da far paura, che non esitava a ripetermi di non mangiare (incitando per altro il mio scheletrico fratellino a divorarsi piattoni di penne al sugo davanti a me).
Io, tuttavia, continuavo imperterrita a ingurgitare di tutto, per poi odiare il mio corpo e la mia debolezza. Un serio problema ai legamenti delle gambe (aggravato dal mio sovrappeso) mi diede il colpo di grazia. Costretta per molto tempo a camminare con l’aiuto delle stampelle, trascorrevo le mie giornate passando dal letto al divano. Lo studio ne trasse di certo giovamento, la mia biblioteca visse epoche felici, ma il mio corpo continuò a sformarsi e il mio umore a risentirne.
Mangiavo tanto, dunque, e di tutto. Perché? Perché mi piaceva, mi tranquillizzava, mi consolava. C’erano giorni in cui i biscotti al cioccolato mi sembravano un piacere irrinunciabile. Partivo sempre con l’idea di mangiarne due al massimo e finivo il pacchetto, a volte ne aprivo un altro e poi passavo a qualche altra ghiottoneria ipercalorica.Di solito l’abbuffata cominciava a metà pomeriggio, come pausa dopo ore di studio. Non mi sentivo mai sazia e la mia merenda si prolungava per un tempo che oggi mi sembra indecente. I giorni in cui mangiavo di più erano quelli in cui ero sola in casa. Dopo, quando lo stomaco era dilatato all’inverosimile, cominciavano i sensi di colpa. Tornavo ai miei libri sentendomi un verme, incapace di controllare le mie pulsioni e mi ripromettevo di non toccare più cibo. Di solito, però, già all’ora di cena il profumo delle pietanze amorevolmente preparate da mia madre mi faceva scordare i miei buoni propositi. Oggi so che ero alle soglie della bulimia e che avrei avuto bisogno di aiuto, non solo di rimproveri.
Capita che i genitori non abbiano gli strumenti per capire ciò che accade ai figli adolescenti e, benché li amino molto e desiderino il meglio per loro (come è accaduto a me), non siano in grado di orientarli.
In casa mia si mangiava bene e per me era un mistero come mia madre potesse mettere in tavola ogni giorno tanti piatti deliziosi senza assaggiarne quasi nessuno. Ora so che anche lei aveva qualche problema con il cibo, ma questa è un’altra storia.
Per vincere la battaglia contro il grasso dovetti attendere gli ultimi anni di Università. Mi ci vollero due operazioni a una caviglia e a un ginocchio e mesi di riabilitazione. A vent’anni anni la palestra era diventata la mia seconda casa. Cominciai a lavorare e il cibo, miracolosamente, smise di essere un rifugio. Passavo molte ore al giorno tra la redazione di una Tv privata e quella di una rivista. A casa, spesso, oltre a studiare mi ritrovavo a dover terminare articoli urgenti e il tempo prese a scorrere a una velocità doppia rispetto a prima. Mi alzavo la mattina con una motivazione mai sperimenta e in breve le mie giornate cominciarono a volare via senza merendine, biscotti e abbuffate nauseabonde. Solo qualche tazza di caffè con i colleghi e tanta voglia di conquistare il mondo.
Nel giro di un paio d’anni persi quasi venti chili. Nessuna dieta, nessuna medicina, nessun segreto. Avevo educato la mente prima del mio stomaco. Imparai semplicemente ad alimentarmi in modo sano, frequentando gente sportiva e leggendo libri sull’argomento, e lo sport divenne la mia regola di vita tanto che dopo la nascita del mio primo figlio mi cimentai (con grande soddisfazione) con le gare di Triathlon.Gli anni vissuti con i tanti chili di troppo sul corpo sono un ancoraggio potente e ancora oggi se il mio peso aumenta, il mio umore peggiora sensibilmente, facendomi automaticamente correre ai ripari, con qualche attenzione in più.
L’obesità, dice l’Organizzazione Mondiale della Sanità, è una malattia che può toglierci anni di vita. Ogni 15 chili di troppo si rischia di vivere 8/10 anni in meno.
La prevenzione, specie nei confronti dei più giovani è fondamentale. Insegniamo tante cose ai nostri figli, ma l’educazione alimentare viene spesso trascurata, così come l’attività fisica. Troppi ragazzini stazionano davanti alla Playstation o al Ipad durante pomeriggi interi.
L’esperienza personale mi ha insegnato a trasmettere ai miei bambini un approccio corretto verso il cibo. Senza fanatismi, ma con un minimo di controllo. Entrambi sono sportivi, amano tanto la Nutella, ma apprezzano cibi più sani come la frutta e la verdura.
Sto cercando di mostrare loro la via che a me non era sta stata indicata. Poi, starà a loro volersi bene.
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(Foto copertina: © Robert Magorien | Dreamstime Stock Photos)
(Foto bilancia: http://www.health.com/health/obesity/)
(Foto coconut cake: © Tawfik Dajani | Dreamstime Stock Photos)