Qualche settimana fa ho incontrato il ministro della Pubblica istruzione Francesco Profumo. Un incontro fugace alla Reggia di Caserta mentre il ministro era circondato da giornalisti, professori, alunni, burocrati. Sono riuscito, però, a parlargli dell’argomento che mi stava a cuore ossia l’abolizione o svalutazione del valore legale del titolo di studio e a consegnarli il libro La libertà della scuola (Liberilibri) che ho curato mettendo insieme alcuni scritti di Luigi Einaudi e Salvatore Valitutti su questo tema fondamentale per la vita intellettuale e morale di ogni democrazia. Il ministro, da parte sua, mi ha annunciato la pubblicazione sul sito del ministero della consultazione per conoscere il pensiero degli italiani sul “valore” del titolo di studio. “E’ un tema importante e merita una decisione democratica” sono state le parole di Profumo. Da qualche giorno sul sito del ministero è attiva la consultazione che è quasi tutta concentrata sul tema dell’accesso ai pubblici uffici e sulla valutazione dei titoli.
I temi scelti dalla consultazione sono di per sé indicativi perché fanno capire che il “valore” che, in maniera del tutto naturale, si attribuisce al titolo di studio o ci si aspetta dal titolo di studio è quello che permette l’ingresso in un sistema burocratico o professionale o lavorativo in genere. Il titolo di studio deve servire a qualcosa di pratico sul piano lavorativo e della carriera, altrimenti non serve a nulla. E’ questo il pensiero più comune, diffuso e solido con cui si giudica il cosiddetto “valore legale del titolo di studio”. La posizione che invece voglio cercare qui di illustrare è opposta: il valore dello studio – prima che del titolo - è quello di non servire a niente e solo se non serve a niente può essere utile a qualcosa, mentre se serve a qualcosa non servirà a niente.
Il governo Monti ha il merito di aver posto il tema dell’abolizione o svalutazione o superamento del valore legale del titolo di studio. Non so se andrà fino in fondo, se si fermerà a metà strada o se non se ne farà nulla. Aver posto il problema è già un merito. Sì, è già un merito perché in Italia vige da sempre l’unico sistema statale dell’istruzione e della ricerca. L’unica esperienza che gli italiani – alunni, studenti, professori, professionisti, burocrati - hanno della scuola e dell’università è quella statale. Perché in Italia vige il monopolio dell’istruzione. La cultura italiana – e la cultura politica italiana - identifica in modo naturale e priva di ogni tipo di sospetto la scuola pubblica con la scuola di Stato mentre i due concetti – che sono due realtà - sono diversi: la scuola è pubblica per definizione e, anzi, se esiste solo la scuola di Stato si può arrivare al paradosso di privatizzare la scuola (e l’università) proprio perché è interamente e integralmente statale o governativa. Ecco perché in una discussione sul valore legale del titolo di studio il primo concetto – che, ribadisco, è una realtà, cioè una pratica - da chiarire è quello della libertà. Cosa che, purtroppo, è assente nella consultazione del ministero che – come detto - si concentra solo sulla funzione che il titolo di studio deve avere per poter accedere agli uffici e alle professioni e in generale al mondo del lavoro. Ma – ecco il punto - perché ci si concentra su questo aspetto specifico? Perché essendo l’ordinamento scolastico e accademico italiano interamente statale e regolamentato dalle leggi dello Stato ne deriva che lo Stato utilizza il sistema dell’istruzione e dell’accademia per preparare la burocrazia statale e professionale di cui ha bisogno per esistere e svilupparsi. La scuola e l’università sono in qualche modo – e in modo molto concreto - al servizio dello Stato mentre in una situazione di libertà deve essere il contrario: lo Stato al servizio della scuola e dell’università. E’ – come, credo, si possa capire - un tema molto importante perché è in questo “incrocio” tra Stato e istruzione che passa oggi quello che una volta si sarebbe chiamato il rapporto tra il potere temporale e il potere spirituale o, se volete, tra potere e spirito. Prim’ancora della questione del modo in cui si accede agli uffici e alle professioni, è questo il tema che c’è nel valore legale del titolo di studio e il fatto che non lo si riesca neanche a vedere nella sua effettiva portata è il più chiaro sintomo della decadenza degli studi del nostro tempo.
L’ultima ricerca di Almalaurea sull’università italiana ha messo in luce una cosa che a naso già si sapeva: più aumentano i laureati, più aumentano i disoccupati. In particolare quella disoccupazione che è definita “disoccupazione intellettuale”. Che cos’è? Proprio Einaudi la considerava né più né meno che un’aberrazione tutta italiana. Si può capire, infatti, cosa sia la disoccupazione manuale ma cosa sia l’intelletto disoccupato è un mistero. Se esiste la categoria sociale del “disoccupato intellettuale” è perché esiste l’illusione che ad un titolo di studio debba corrispondere una funzione, una dirigenza, un lavoro, una mansione. Einaudi non si stancò mai di far notare due cose: a) che il collegamento indebito tra titolo e lavoro genera l’illusione che il “pezzo di carta” dia un diritto lavorativo; b) che l’uso dell’università e della scuola per sfornare diplomi e lauree dal valore legale è una svalutazione della formazione e della ricerca e di conseguenza un impoverimento della vita economica e morale che non possono più contare su merito, capacità e intraprendenza ma su inutili titoli legali.
Il mondo delle imprese in genere affronta il problema sostenendo che è necessario far incontrare domanda e offerta. Può darsi che una maggior informazione possa essere utile, non c’è dubbio. Tutto è utile a sapersi. Ma il problema è di tutt’altra natura. I dati di Almalaurea dimostrano che il sistema dell’università che sforna laureati pronti a spendere il loro titolo di studio nel lavoro è entrato definitivamente in crisi perché è un errore in sé far corrispondere ai “curricoli” delle specifiche “funzioni” amministrative o professionali ed è ancora più erroneo ritenere di poter creare lavoro sulla base del possesso dei “pezzi di carta”. Si tratta della fine dell’illusione che Einaudi aveva messo bene in luce.
Il sistema è da capovolgere. L’abolizione o svalutazione del valore legale dei titoli di studio ha almeno due conseguenze: la prima (che in realtà è la seconda) riguarda la pubblica amministrazione e la seconda il sistema scolastico e delle accademie. Oggi il sistema funziona così: lo Stato si rivale su scuola e università per allevare impiegati e dirigenti e attraverso i titoli regola l’accesso agli uffici e la loro gerarchia. Se si abolisce il valore legale si cambia anche il sistema di accesso alla pubblica amministrazione che dovrà avvenire in base al merito effettivo e non ai titoli supposti. C’è bisogno, dunque, di una riforma della pubblica amministrazione che contempli un rigoroso sistema di esami di Stato extrascolastici per l’accesso agli uffici. Il tema dell’esame di Stato extrascolastico è fondamentale perché determina, sia pure in modo indiretto, la necessità di avere studi rigorosi, seri, severi.
Ma l’abolizione del valore legale dei titoli di studio ha conseguenze (per fortuna) anche sul mondo della scuola e dell’università. Questo è il vero tema che resta in ombra nella consultazione del ministero. Non si considera cioè il fatto che la fine del valore legale dei titoli di studio è la vera riforma del sistema dell’istruzione e della ricerca che prende atto della conclusione della storia pan-statale della scuola. In altre parole, i titoli di studio – diplomi e lauree - sono già svalutati. Dunque, conviene cambiare sistema perché i titoli di studio non si rivalutano per magia. Infatti, se diplomi e lauree non hanno più valore legale, che valore avranno? Quello che compete loro per natura: il valore culturale. Però, come è da prevedere una riforma della pubblica amministrazione per il reclutamento di impiegati e dirigenti, allo stesso modo c’è bisogno di una riforma della scuola e dell’università che riguarda inevitabilmente gli esami. Riforma scuola e università, infatti, significa riformare gli esami. In una scuola in cui il titolo di studio non ha più valore legale, che senso ha tenere in piedi un esame di Stato scolastico finale? Ancora una volta: il sistema va capovolto: se ora ci sono esami in uscita, ci dovranno essere esami in entrata sia per la scelta della scuola sia per la scelta dell’università e si possono prevedere anche esami interni. Ma qui sono le scuole possono organizzare al meglio il loro lavoro, mentre al ministero compete solo una funzione di controllo. E si arriva così al cuore della questione: la libertà della scuola e dell’insegnamento che non può non basarsi sulla serietà e inventiva dell’insegnamento e sulla volontà bendisposta degli alunni e degli studenti. In una scuola e in un’università in cui ciò che ha “valore” è il titolo – cioè il suo possesso - gli studi sono di fatto inevitabilmente svalutati. Invece, in una scuola e in un’università in cui il valore del titolo dipende solo dalla serietà dell’apprendimento e dell’insegnamento gli studi acquistano importanza decisiva, valore e responsabilità personale.
In questo modo scuola e università raggiungerebbero due obiettivi: avrebbero l’opportunità di ritornare ad essere “solo” scuole e università e non sarebbero più “corsi di formazione” per aziende, uffici, burocrazie. Ma d’altra parte proprio aziende, uffici, burocrazie potrebbero contare – dando tempo al tempo, si capisce - su soggetti che si sono formati sul merito e sulle capacità e non sul possesso di titoli. Solo se la scuola forma e l’università pensa avremmo soggetti liberi e determinati, altrimenti ci saranno sempre i “disoccupati intellettuali”. Purtroppo, questo tema specifico della libertà della scuola è assente nel questionario della consultazione del ministero e l’attenzione si concentra da un lato sul modo in cui il titolo può essere utile a reclutare burocrati e professionisti, dall’altro su come ridare valore a un titolo ormai svalutato. Come spero si sia visto, sono due problemi che si possono affrontare solo alla luce del concetto principale della libertà della scuola o degli studi la cui autorità non può essere fondata sul preside, sul consiglio di facoltà o, peggio, sul Parlamento o la sovranità popolare ma unicamente sulla coscienza del sapere che non tollera monopoli. Nell’espressione “valore legale del titolo di studio” c’è molto di più della pubblica amministrazione e del tasso di occupazione, c’è il senso delle libertà civili e morali che una nazione è capace o meno di coltivare.
tratto da Liberal del 27 marzo 2012