Giovani e lavoro: posto fisso come chiodo fisso?

Creato il 12 febbraio 2012 da Alessandro @AleTrasforini

Contrariamente a quanto sostenuto dall'uomo che si è prefisso l'obiettivo di cambiare la mente degli italiani, è oggettivo scrivere che un futuro oggi si può costruire solo con la tanto disprezzata "monotonia": è monotono lavorare una vita intera per mettere da parte qualcosa, è monotono studiare e specializzarsi per avere (teoricamente, nds) più probabilità di successo ed occupazione, è monotono timbrare cartellini che dovrebbero permettere, giorno per giorno, di vivere.  La domanda principale, in tempi come questi, sembra essere diventata una sola: vivere per lavorare o lavorare per vivere?  La linea di confine fra le due possibilità va sempre più assottigliandosi, a fronte di ritmi sempre più proibitivi di esistenza: se non fai tutto rimanendo "cronologicamente" in regola rischi di diventare sfigato, qualunque sia la tua condizione al contorno.  In una società dove il posto fisso finisce per fare stretta rima con assicurazione di vita e futuro, l'assenza di certezza lavorativa può causare devastanti scompensi sociali sul medio-lungo termine.  Riformare il lavoro significa solo abolire od accanirsi contro il vituperato articolo 18?  Riformare il lavoro significa solo chiedere "meno monotonia" e disillusione a chi per ragioni anagrafiche si affaccia solamente ora al mondo "che conta"? Riformare il lavoro significa minimizzare le tutele per rendere tutto più "divertente"?  Arrivare alla fine del mese facendo i salti mortali è veramente la "mission impossible" più importante da realizzare? Le domande sono tantissime, in questo momento di immenso cambiamento: si stanno facendo in pochi mesi le cose che una certa "politica" ha rimandato per anni, rischiando così di compromettere ulteriormente "l'equilibrio" (parola grossa, nds) sociale. Non c'è neppure garanzia alcuna di riuscita, in quanto gli indici di crescita solo esclusivamente potenzialmente raggiungibili. In questo momento, purtroppo, l'equazione sembra avere una sola soluzione: crescere economicamente per salvarsi socialmente.  In mezzo, impazza questa tremenda guerra contro la "monotonia": sotto la lente di ingrandimento finisce, ancora una volta, quella straordinaria risorsa costituita dal capitale umano.  Quasi nessuno ha detto e scritto che, nel futuro, le speranze di crescita più grandi dovrebbero concentrarsi sul dare valore a cose/fattori che fino ad oggi non ne hanno avuto; ciò che è invisibile sul breve termine non lo è, per esempio, sulla lunga distanza.  A questo proposito, chiedere dei risultati (anche in termini economici, nds) raggiunti oltre Italia dai troppi cervelli qui formati e poi (giustamente) fuggiti per costruirsi un "monotono" domani.  Citando il capitale umano, inevitabilmente, si finisce per richiamare in causa la questione giovanile: come si sentono i giovani italiani nella ricerca di un futuro? Hanno davvero quello che si meritano, volendo puntare esclusivamente alla costruzione di un "monotono" domani?  Sono troppo distratti dalle travi nei loro occhi per poter guardare il dito indicante una luna di straordinarie opportunità di carriera? Le domande sono tantissime, su una questione tremendamente complessa come questa.  Grazie alle condizioni attuali, l'Italia di domani rischia di trasformarsi in uno Stato dove tutto sarà estremamente "flessibile" e "meno monotono": se i migliori cervelli continueranno a scegliere la fuga, con quali armi saranno portate avanti le nuove sfide che abbiamo davanti?  Se il lavoro diventerà sempre più "svincolato", le banche sapranno adeguarsi alla dilagante "moda"?  Sarà possibile ottenere mutui fornendo garanzie che oggi vengono considerate inesistenti?  Le risposte a queste ultime tre domande sono, ovviamente, scontate.  I giovani, stando ad una ricerca condotta, cercano forse ancora ciò che sta diventando (eufemisticamente) difficile trovare: sicurezza e stabilità del posto di lavoro sembrano essere i fattori prediletti dalle nuove generazioni per la costruzione di un futuro. Meglio un lavoro "sicuro anche se meno redditizio" od uno "meno sicuro ma con più prospettive di reddito"?  Di fronte a questa domanda, 9 giovani su 10 ritengono preferibile la prima strada: visione giusta o sbagliata?  Qualcuno sostiene che questa visione sia sinonimo di scarsa volontà di "fare carriera": cosa significa, in uno Stato come questo, affermarsi lavorativamente? Tale "mancanza" di prospettive non può essere, forse, dovuta al contesto economico-sociale di straordinaria precarietà nel quale ogni italiano è costretto a muoversi?  Il "concime" (per non scrivere di peggio, nds) si spande a macchia di leopardo, lungo tutto lo stivale: tutto questo non dovrebbe influenzare minimamente il domani di quanti ancora un futuro se lo devono costruire?  Moltissimi giovani, comprendendo la fascia 18-34 anni, sarebbero disposti ad allontanarsi anche dalle "mura amiche": stando all'articolo in questione, sarebbero circa 7 su 10. Se le condizioni al contorno sono quelle che sono, come può ogni giovane aggrapparsi consapevolmente ad un appiglio che non c'è? Sarebbe opportuno riflettere anche sulla forbice generazionale inclusa nel documento in questione: fra 18 e 34 anni dovrebbe esserci, a conti fatti, più di una generazione di differenza. Essere "giovani" a 34 anni è un privilegio/condanna di matrice italica?  Esistono altre "giovani" generazioni che a quasi 40 anni si vedono ancora con una vita davanti?  Le domande, anche su questo campo, sono altrettanto infinite e pesanti.  Stabilità e sicurezza sul lavoro coincidono, per il modello di società contemporaneo, con stabilità e sicurezza nella vita.  Chi sostiene il contrario, ad essere buoni, proviene (come minimo) dalla Luna. Governanti compresi, ovviamente. 
Fonte:  "Giovani e lavoro, il sogno resta il posto fisso", R.Mannheimer, Corriere della Sera (http://www.corriere.it/cronache/12_febbraio_12/giovani-lavoro-sogno-posto-fisso-mannheimer_b7f0cbb0-5548-11e1-9c86-f77f3fe7445c.shtml)


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