Originario di Treviso, Comisso (1893 - 1969) prese parte alla Grande Guerra e poi all’esperienza di Fiume con D’Annunzio. Molto legato alla sua città, fu giornalista e affermato autore di reportage di viaggio per vari quotidiani. Vinse il Premio Viareggio nel 1952 con Capricci italiani e lo Strega nel 1955 con Un gatto attraversa la strada.
Lo scrittore in Giorni di Guerra ci parla della sua esperienza nel conflitto in cui operò, dal 1915 al 1918, come soldato e poi come sottotenente del Genio, svolgendo il suo lavoro con grande scrupolo e coraggio; spesso dovette intervenire nelle zone battute dalle artiglierie nemiche per ripristinare preziosi collegamenti telefonici, mentre in altre fasi conobbe la monotonia della vita nelle retrovie.
L’esperienza al fronte di Giovanni Comisso non ci fa respirare il truce clima delle trincee e la paura della morte che può colpire in ogni momento il povero fante. Non troviamo una specifica impostazione “ideologica” affine alla guerra o contraria ad essa. Si tratta del diario di un giovane che a poco più di vent’anni si trova immerso in una “avventura” dove il drammatico trova spesso un inatteso contraltare nel grottesco.
Ad esempio ci racconta di una famiglia di contadini che parlano quasi in modo lieto di una cannonata caduta vicino alla propria casa, come se si trattasse di una piacevole novità. Oppure ci descrive una demenziale sparatoria in cui si prende di mira un aereo; anche gli ufficiali tirano con la pistola, alcuni dal tetto della cucina. Poi, finita la confusione, si viene a sapere che il velivolo era italiano. Anche nella tremenda ritirata di Caporetto, in cui dominano marasma e anarchia, Comisso riesce a farci sorridere parlando di un ufficiale che nella fuga si trascina via decine e decine di scarpe colorate, mentre altrove ci sono postazioni di soldati che non vengono avvisati dell’imminente arrivo del nemico. Quella ritirata è una piccola Anabasi, drammatica ma non priva di fasi bizzarre o di momenti lirici, come quando l’autore sogna di fermarsi per sempre in una valle spopolata con una donna appena conosciuta.
Altri passi interessanti sono quelli che si riferiscono alle battaglie del 1918 intorno al Piave, sempre con l'oscillare tra registro tragico e registro leggero. Le grandi artiglierie appostate tra gli alberi sono affiancate dai contadini che continuano a lavorare i campi vicini nonostante gli scontri. Tra i bagliori notturni delle cannonate e dei razzi, alcune donne osservano che a Nervesa doveva esserci la sagra. Un generale ordina di sparare sui fanti che fuggono; mentre ancora si combatte duramente, dietro a una chiesa si scavano fosse, destinate non ai caduti, ma ai disertori che dovevano essere fucilati.
Le ultime righe del libro sono un omaggio ai soldati vittoriosi, resi arcigni dalla sofferenza, quasi una "razza" a parte, forgiata dalla guerra e destinata a subirne le conseguenze:
"Neri, come di fumo, sporchi, stracciati, con fasciature spicciative alle mani e alla testa, sfiniti nel volto, ma accesi di sangue alle labbra e di vita negli occhi, cercai di imprimerli nella memoria, perché ormai ero certo che aspetti simili non sarebbe stato possibile rivederli più. Pareva avessero impegnata tutta la loro forza per fare all'amore o per una corsa accanita e sorridevano pesantemente come non sapessero essi stessi cosa avessero fatto e perché”.
In fondo la guerra, per chi la fa è quasi sempre una sconfitta, per il prezzo enorme che costringe a pagare. Al momento della chiamata al fronte, uno zio del giovane, già protagonista delle battaglie risorgimentali, lo ammonisce così: “Noi, appena finite le guerre, ci siamo trovati con un pugno di mosche, pensioni misere, appena guardati in faccia, mentre gli altri che erano rimasti a casa avevano pensato a farsi ottime sociali sfruttando la situazione che noi avevamo creato con il nostro sangue”.