Giovanni Comisso
Nato a Treviso il 3 ottobre del 1895, vi morì il 21 gennaio 1969. Fu uomo eccentrico ed eclettico: laureatosi in legge, partecipò come volontario alla Prima guerra mondiale. Nel 1919 prese parte all’impresa di Fiume a fianco di Gabriele D’Annunzio, di cui subirà l’influenza soprattutto nel romanzo di esordio “Il porto dell’amore”; tornò quindi ad esercitare l’avvocatura, per poi abbandonarla di nuovo e definitivamente. Fu libraio a Milano e commerciante d’arte a Parigi, finché la sua passione per la letteratura lo convinse a dedicarsi alla scrittura. Collabora a Solaria e al Mondo e diventa inviato speciale del Corriere della Sera, distinguendosi per i suoi reportage di grande qualità, tra i quali: Cina-Giappone, del 1932 e L’italiano errante per l’Italia, del 1937, che rivedrà e pubblicherà nel 1945 con il nuovo titolo La favorita.
Scrive il suo primo romanzo nel 1924, “Il porto dell’amore”, che rivede nel 1928, mutando anche il titolo in “Al vento dell’Adriatico”. I suoi libri più noti sono: Giorni di guerra, 1930; Le mie stagioni, 1951; Mio sodalizio con De Pisis, 1954; La mia casa di campagna, 1958, e i romanzi con cui ha vinto importanti premi letterari: Gente di mare, 1928, premio Bagutta; Capricci italiani, 1952, premio Viareggio per la saggistica; Un gatto attraversa la strada, 1955, premio Strega.
Diciamo subito che “La mia casa di campagna” recupera anche testi scritti altrove da Comisso, che però riesce ad amalgamarli fino a comporre un romanzo ben strutturato e compiuto.
Vi si narra dell’acquisto della casa di campagna in una località a pochi chilometri da Treviso, Conche di Zero Branco, avvenuto il 29 settembre 1930 e della vita da “buen ritiro” che vi conduce.
L’autore, che ha 35 anni, vuole farne il suo universo: lì trova riuniti e fusi splendidamente molti paesaggi incontrati nei suoi viaggi. Capisce così che forse può leggere il mondo anche osservandolo da dentro il piccolo recinto di quella casa. Anzi, lo potrà leggere in modo più approfondito: “mai ero rimasto fermo a un essere umano o a un paesaggio, ma sempre ero passato con avidità e indifferenza dall’uno all’altro.”
La casa ha bisogno di lavori di restauro e anche i sette ettari e mezzo di terreno devono essere risistemati. Non si perde d’animo e chiama a servizio vari lavoratori, cambiandoli quando non si rivelano adatti allo scopo. Comisso avvia così una serie di ritratti deliziosi, pennellati da uno scrittura accattivante e complice, pulita, leggera, da narratore puro.
Vivere su di una terra e da soli, privi dei consigli di chi è esperto più di noi (in particolare i consigli della madre a cui l’autore si mostra molto legato) non è facile; s’impara a vedere non più il lato arcadico della vita, ma quello dell’arcigna fatica che occorre per conservare la terra e metterla a frutto. Gli stessi contadini si rivelano “duri e intrattabili”. Tuttavia “invece di desiderare di staccarmi da quella casa e da quella terra, me ne sentii più avvinto di prima.”
Vi è un incanto dunque nella terra che nessuna contrarietà può sconfiggere: “Se prima consideravo i paesaggi e gli esseri tutti sullo stesso piano, ora avveniva che quel paesaggio della mia terra era da me considerato come un essere umano.” Riesce perfino a scrivere un suo romanzo “come se scrivere fosse stato per me prendere il filo di un bozzolo e diradarlo.”
Un’osteria che l’autore suole frequentare, dove si ritrovano i contadini con le loro singolarità, con i “loro estri selvaggi”, gli consente di gustare il sapore di un’antica civiltà che si può avvertire solo stando a contatto con la terra: “Questi incontri mi rivelavano che vivere pure nella solitudine della mia casa lontano dalla città, dalle strade principali e dal piccolo villaggio, poteva essere consolato come da stupendi spettacoli.”
Se si pensi che Comisso veniva dall’esperienza di inviato speciale e aveva visitato tanti luoghi sparsi nel mondo, un tale sentimento rivela una scelta convinta e consapevole. Solo riappropriandosi delle proprie radici si può sperare nella felicità: “Tutta la mia avidità di conoscere e di vedere, fino allora dispersa nei miei viaggi per il mondo, la rivolgevo ora, radicato in quella mia casa, verso la terra circostante e verso la gente che l’abitava.”
Rivive l’infanzia osservando i ragazzi che si muovono intorno a lui: Loli, Gildo, Carlo, Santino, Basilio, e altri ancora, mostrano la spavalderia, l’impazienza, l’entusiasmo della loro età grazie a una scrittura che si mantiene limpida anche a distanza di così tanti anni. Il romanzo, in particolare, si snoda attraverso una serie di passaggi che fanno del racconto il mezzo espressivo in cui meraviglia e incanto riescono a rendere vivide le immagini e i sentimenti. Vi si incontrano una tale leggerezza e una tale grazia nel raccontare che Comisso vi emerge come un narratore dal destino segnato. Se fosse stato analfabeta, sarebbe diventato certamente un cantastorie.
E un canto è la lode che l’autore innalza alla terra nel capitolo che inizia: “La terra è una vita germinativa regolata da un calore sommerso in rispondente amore con quello irruente e alterno del sole. Cresce questo calore sommerso, tumultua, si affievolisce, si fa profondo, inavvertito sotto al gelo e poi riprende ancora a salire, fino ad affiorare nelle vampanti giornate, quando trema l’aria rasente ai solchi.”
Scene che par di avere davanti agli occhi sono quella del mercato del bestiame con l’opera del sensale che suda le sette camicie per mettere d’accordo venditore e compratore: si avvertono il chiacchiericcio, la confusione, la lite che ogni tanto sorge tra i contraenti; e anche quella della preparazione delle nozze tra giovani contadini con la sposa che “scioglierà i bioccoli di lana, per il materasso nuziale, accompagnandosi con il canto.” Comisso vi si muove con un piacere che va ben oltre la descrizione e ci fa capire che quella vita ha qualcosa di portentoso che l’uomo non riesce a trattenere per sé e disperde correndo dietro alla modernità: “la mia segreta speranza era di trovare nel reddito dei campi la possibilità di realizzare quel grande ozio che fu sempre la mia suprema attesa.” La campagna si trasforma così in Comisso in un rifugio ideale, mitico: “Non avere padroni, né servitori, non avere l’incubo delle ore, non avere alcuna preoccupazione di denaro e lasciare che la mente e i sensi vivano tra il sogno e l’azione, liberi e folli, secondo l’estro determinato quasi da una consistenza astrale.” Pare proprio che lo spirito di Virgilio si sia impossessato di Comisso, tanti sono la pace e il conforto che la natura suscita in lui. Deve però, talvolta, confliggere con la solitudine, che gli arreca tristezza. Non può stare solo, deve avere accanto a sé qualcuno. La madre qualche volta si trasferisce da lui e allora: “la presenza di mia madre mi aveva ridato la felicità di vivere.” Il rapporto con la madre è fondamentale in Comisso: “A metà dell’estate mia madre mi lasciò e mi riprese la tristezza, come se dovessi nascere ancora.” La madre è la scintilla che illumina e infiamma le sue giornate grigie: ”Ci si comunicava i sogni della notte”. Vi si può riscontrare un’assimilazione tra madre e terra, entrambe generatrici di vita: “La terra ha una volontà tremenda che non ammette tregua, la spiga, la vite, il granone comandano, gridando, urlano al contadino di lavorare. Egli è costretto a frullare in questo gorgo sottomesso alla forza della terra che esprime i suoi frutti.”
Tita è un contadino nella cui stalla d’inverno si radunano, riscaldati dal fiato dei buoi, per giocare a carte. È il modo di trascorrere insieme la cattiva stagione in attesa della primavera. Comisso, attraverso di lui, ci conduce alla stagione del taglio del frumento: “In tanti che erano si lavorava allegramente, gli uomini stuzzicavano le donne ricurve nel legare i mannelli e queste rispondevano lanciando fasci di spighe pungenti. Cresceva il lavoro insieme al caldo della giornata e al vino che veniva portato. Sul finire, come d’abitudine, si fece tra i covoni già composti una piccola merenda.” Che sembra un quadro dei macchiaioli, così vive e colorate risultano le immagini che arrivano fino a noi. Come quelle della mungitura che il bovaro fa poggiando “la testa contro al loro ventre per fare credere di essere un loro vitello e il latte scrosciava spumeggiante.”
La famiglia contadina che Comisso ci descrive è quella rimasta intatta dalla fine del Seicento, quando nel Veneto cominciarono a insediarsi le prime famiglie aristocratiche veneziane le quali, acquistate le terre dalle compagnie religiose che le possedevano, vi costruirono ville e fattorie. Poi con la decadenza della nobiltà, i beni passarono alla borghesia.
È una famiglia che nutre un fervida fede in Dio, il quale a conclusione di ogni annata “si dimostrava sempre un galantuomo, dando più di quanto essi davano di fatica.” Il capo famiglia era un’autorità a cui ci si rivolgeva per ogni cosa, dai denari per fare la spesa, al consenso per il fidanzamento dei figli e dei nipoti. A proposito del fidanzamento, prima di arrivarvi si doveva passare attraverso varie fasi; e il matrimonio si sarebbe celebrato al ritorno dal servizio militare; nel frattempo la ragazza avrebbe occupato il suo tempo a cucirsi la dote. Il matrimonio trasformava definitivamente la ragazza che, divenuta sposa, aveva la responsabilità della casa ed aiutava il marito nei campi: “Cantavano sempre, come segno della felicità raggiunta, quando rastrellavano i foraggi e ritornavano assise sull’alto dei carri di fieno.” Poi arriva la prima fabbrica e anche il destino secolare della donna muta. Trovandosi insieme, le donne acquisiscono la consapevolezza della loro femminilità e della loro forza. È l’inizio di un mutamento che continuerà per tutto il secolo scorso: “Dovevano pettinarsi meglio, pettinarsi i capelli con un olio migliore e decisero di andare da una pettinatrice in città.”; “I giovani che esse frequentavano erano impiegati o padroni di bottega che avevano denari da spendere.”
L’osservazione delle piante e degli animali della sua fattoria è a tal punto minuta ed esatta che pare di udire il colloquio dell’autore con essi. Basti leggere quanto scrive sulla zucca, che dalle sue parole è trattata come un essere umano: “Ma stranamente mi accorsi che tra le nuove femmine pronte a nuove nozze, una era apparsa con un piccolo calice atrofizzato, che non riuscì ad aprirsi e a fiorire. Una femmina forse votata alla castità, una monachella, una ritrosa, una destinata alla negazione dell’amore.”
Riguardo al frumento, lo dichiara apertamente: “Il frumento terminò il suo ciclo evolutivo, quasi umano di nove mesi.”
Si può pensare che a questa umanizzazione della natura (“La terra è come il contadino e il contadino come la terra”; “Le viti già liberate dai grappoli giacevano disfatte e come donne dopo il parto.”; “i contadini dopo cena si ritraggono nella stalla al caldo degli animali.”; “Avrei voluto vedere i paesaggi solo dentro all’uomo.”) concorra prepotentemente la fede in Dio. Comisso ne scrive così: “Altra maniera per resistere nella vita di campagna è di avere il senso avaro della terra. Bisogna avere fede nella lavorazione di questa, compiacersi della lotta contro le difficoltà, smaniare per le vicende della stagione in rapporto ai raccolti, interessarci al guadagno e soprattutto portare giornalmente un attimo di riconoscenza a Dio, che interviene sempre per il meglio con infinita generosità.” Alla madre, dunque, si aggiunge Dio, come punto di riferimento e talvolta come sola ancora di salvezza.
Anche se in qualche occasione si dubita che Dio sia con noi. Quando cade improvvisa la grandine, ad esempio, e rovina il raccolto, con gli uomini e le donne radunati sotto il porticato, sgomenti sapendo di non poter far niente: “I contadini non fiatavano, dilatato lo sguardo, stringevano le braccia con le mani, guardavano e sembrava non volessero credere.” Tutto il superbo racconto della grandinata altro non è che la descrizione del dolore che penetra dentro la gioia e la speranza; squarcia la ferita della disperazione, e sarà duro monito per intendere che ci sarà ancora più bisogno di coraggio e di fede: “La campagna aveva un aspetto lugubre, il verde prima traboccante non esisteva più.”
Scoppierà anche la Guerra: prima la Germania invaderà la Polonia, poi l’Italia si accoderà alla Germania per mettere in ginocchio la Francia. È il momento in cui si fa più forte e solenne la fiducia nella terra, “convinto che la terra con la sua virtù di germogliare e di fruttificare mi avrebbe comunque sorretto.”
Il romanzo si conferma, dunque, sempre di più, un inno alla natura, più saggia e più attendibile degli uomini, meno ingannatrice, meno infida.
Gli uomini sono coloro che accendono le guerre, si alleano con il dolore e la morte (la guerra “aveva un solo scopo, una sola funzione, quella di educare gli uomini al dolore.”), e Comisso questi uomini li tiene lontano. La guerra non entra nella sua casa di campagna, se ne ode il bisbiglio, ma subito la porta è sbarrata. Anzi, sarà proprio grazie ad essa che l’autore e la madre si salveranno dal bombardamento su Treviso, che distruggerà la loro casa di città. Scrive: “Osservavo che anche i contadini vivevano in un mondo isolato presi nel giro dei loro lavori e delle stagioni. Il mondo che era impazzito lo avvertivano solo se un loro figlio veniva ucciso o fatto prigioniero o quando arrivava l’ordine di requisizione di qualche animale della loro stalla.” Ma la guerra ha una malefica forza che la sorregge; difficile liberarsene del tutto. Così non esita a gridare il suo sdegno: “Da qualche centinaio d’anni si fanno guerre per la libertà dei popoli, per la grandezza dei popoli, per il benessere dei popoli. Invece vi sono soltanto criminali scatenati e molti ingenui che seguono il gioco.”; “le guerre si fanno perché vi sono sempre gli stupidi pronti ad adattarsi a farle.”
Il vecchio Tita resterà il solo uomo che Comisso chiama a testimoniare di un’alleanza sincera tra l’uomo e la natura. Quando va a trovare l’amico Guido, arrestato dai fascisti, arriva a dire: “Mi vergognai di appartenere al genere umano.” Guido è l’amico del cuore; ventenne verrà fucilato dai partigiani convinti che fosse una spia, invece era uno di loro.
La fine della guerra cambierà molte cose. I contadini, arricchitisi con la vendita dei loro prodotti agli abitanti delle città e agli sfollati, si imborghesiscono, pensano alla terra come fonte di ricchezza o meglio di denaro. L’unità delle famiglie viene spezzata dalla brama di ciascuno di avere la sua parte di terra, su cui lavorare per arricchirsi. Comisso avverte il mutamento, intuisce che sarà inarrestabile.
La malinconia che ne consegue rafforza in lui l’amore per la terra e per tutto ciò che più è unito a lei, come gli animali, contro i quali l’uomo si accanisce, sfruttandoli nel lavoro, e poi li vende e li manda al macello. Il contadino che ha convissuto per anni con l’animale non esita a mangiarne la carne: “quando si vende qualche animale da macello, si raccomanda sempre al macellaio che gli riservi la coda per farsi il brodo. Non so come riesca essere così insensibile”; “Solo perché è immangiabile abbiamo escogitato che il cane è amico dell’uomo. Così per le rondini abbiamo inventato un affetto particolare solo perché sono immangiabili.”
Comisso ha tratto le sue conclusioni, che sono tutte sfavorevoli all’uomo. Gli animali e la terra sono di un’altra razza: “A volte osservando questi animali soggiogati, apparire tuttavia tranquilli e sereni, mi risultavano come sapienti nel sostenere la loro ingiusta condanna.”
La scrittura di Comisso trasuda di amore e di profonda sensibilità; basti pensare al capitolo dedicato alla morte della madre. Scriverà poco dopo: “Da una finestra vidi una rondine posata sui fili della luce, non fuggì nel riguardarla, diede un cinguettio e aveva la stessa forma di lei”. Mai la scrittura è aspra, il tiepido calore che ne emana è dolce, rasserenante. Attraverso di essa, lo vediamo faticare, estirpare la gramigna, zappare la terra, carezzare i suoi animali (“non riuscivo a considerarli come bestie, ma come animali.”) e scorgiamo il sudore colargli dal viso e dal corpo e andare a bagnare la terra nel tentativo di unirsi ad essa con un estremo gesto di amore.
Non si staccherà mai più dalla terra. Morta la madre, venderà la casa di campagna, divenuta una sorgente di dolore, e nella nuova casa in città si ritaglierà un piccolo orto: “ancora mi affatico a vangare e allora capisco che il mio destino è di non potermi liberare della terra.”