Firenze – Ponte Vecchio
Se torno a casa dal Ponte Vecchio – di sera – mi par d’entare a un tratto in una scorciatoia che meni al paradiso. (Del paradiso, almeno, come se lo figurano le ragazze dell’Impruneta e le spose di Sancasciano). Da tutte e due le parti gli ori e gli argenti covati dalle perettine elettriche rischiarano il mio cammino coi loro fulgori d’occasione. I raggi solari dell’oro e i riflessi ghiacciati dell’argento feriscono rapidamente i vetri delle automobili, gli occhi dei forestieri, i campanelli delle biciclette, le stelle dei soldati. Un incrocio di luci, una zuffa di scintille, una gara di splendori occupa e riempe lo stretto corridodio di fuoco vivo e morto. Gli orefici, in fondo alle botteghine vuote, di nanzi a’ banchi verdi, seggono calmi e beati come se quella ricchezza fosse lì per il loro piacere. Anche il lastrico sembra più prezioso che nell’altre strade e appena vien la notte luccica qua e là come se le scarpe dei passanti fossero risuolate d’argento.
Le pietre false delle vetrine sforzano le loro trasparenze per dare ai più poveri l’illusione dei tesori d’oriente e dei diademi delle madonne. I mille orologi esposti in fila segnano tutti un’ora diversa per far capire che sono adatti a tutte le vite e che ognuno può scegliere la sua ora. Al sommo dell’arco, giù calante dal nero, una candida sfera elettrica fa pensare che il ponte abbia una luna tutta per sé.
(Giovanni Papini, “La mia strada” da Cento pagine di poesia, pag.41 e 42 – Vallecchi Editore – 1920)