Giovanni Verona: il profumo dell’elicrisio

Da Narcyso

disegni di Vanni Cantà

Il gesto della poesia è, per Verona, come per chi sente di appartenere ad un mondo che finisce – che è finito -, un gesto di commiato, di nostalgia e rimpianto (come prova la sua personale rivisitazione dei miti). Ma come acqua che sgorga, come una “pianta che conosce dall’infanzia il bacio della luna”, è un gesto che apre (non chiude), si apre e fiorisce. Un gesto di amicizia, come quello da cui nascono le carte di Vanni, chiamato qui a una sorta di colloquio che continua, e invera, un lungo sodalizio umano. Entrambi attingono, come stranieri, alla parte più nascosta del Polesine, una terra dove la memoria del mondo torna ad essere oblio. (Marco Munaro)

COSA VOGLIONO LE ROSE

Ti sei chiesta cosa vogliono le rose

Abbandonate alla tristezza di novembre

Senza un cielo che le scaldi

Senza genio di una fioritura

Forse aspettano una mano che le colga

Un ricovero al riparo di un domestico tepore

Un miracolo di falsa primavera

 La tardiva fioritura

***

IL NOME CHE NON SI PRONUNCIA

Prima ancora ch’io ti conoscessi

M’hai legato al giuramento

Non hai chiesto la mia vita

Per conoscere il tuo volto

La tua voce è la canzone

Di un dolore che non ha vergogna

Di un amore che nessuno vuole

Condannato

Incompiuto

Il tuo nome non è stato pronunciato

Il tuo canto è diventato il mio segreto

Tu conosci l’entità della sventura

Il tempo del giudizio

Il silenzio della terra

La promessa

Sei compagno che conforta

Un amico nella predestinazione

Prima ancora che tu mi scegliessi

So chi sei

Ti conosco

Lascia che si spenga il giorno

Allora

Lentamente

Con pazienza

Lasciami attardato alla finestra

Col pudore di chi spera

Trema

Di chi sogna un’ultima felicità che lo sorprenda

Prima che declini il sole

Prima che qualcuno invochi l’atto della fine

Sia gentile la carezza che mi chiude gli occhi

Sia leggera la tua mano

Profumato d’elicriso il gesto di commiato

***

Quindi il commiato ha il profumo d’elicrisio, umile fiore giallo che cresce sui dirupi, sulle scarpate marine. Quindi la vita ritorna, senza il gesto progettato della semina, ritorna per attitudine a rifiorire, selvaggia e senza scopo.

Non così le rose, “Abbandonate alla tristezza di novembre”, umane e domestiche come le cose che ci circondano, e per questo più fragili, più propense a scomparire per mancanza di cura, o attaccate dai parassiti, malgrado le spine.

Sono le rose bianche che vedo da qui, sdradicate più di una volta perchè ossessivamente fiduciose del calore della staccionata, ritornate, dopo il taglio, splendide e selvagge, e invasive. Ancora rispuntate, malgrado i rigori dell’inverno, come i gatti, come l’edera. Ripianterò questa rosa bianca, più in là, senza cura, ormai selvaggia, come l’elicriso.

 Il commiato ha la forma di un fiore che ritorna. Malgrado noi, malgrado la vita stessa. Che avvenga prima, dice Giovanni Verona, ancora attardati per un istante alla finestra, a contemplare ciò che non accetta di svanire.

Sebastiano Aglieco


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