Si può essere falliti in molti modi: c’è chi lascia andare alla deriva un matrimonio o un’attività, chi si perde nei sogni di rivoluzione sociale, c’è quello che arranca fra truffe e jet-society e quello che si lascia sprofondare in una vita limacciosa, lavoro, sesso, rapporti umani ridotti al minimo.
A guardarci dentro, siamo tutti falliti in qualcosa, ma ci consoliamo con altri aspetti della nostra vita (forse) più riusciti. È un bene, un male? Certo è che quando si arriva a considerare tutta la propria esistenza un fiasco, scatta l’istinto di sopravvivenza e si tenta di mettere in atto, attraverso un brusca, incosciente, coraggiosa sterzata, il “Piano B”.
Siamo la generazione del piano B. Lavorare in questo paese fa così schifo che, anche se fai il miracolo di raggiungere la posizione per cui hai studiato, dopo due anni ne hai le palle piene e inizi a elaborare il tuo piano B. Quasi sempre si tratta di un agriturismo, questo quando allo schifo per il lavoro si aggiunge lo schifo per la città.
Ed è a questo sogno di tanti che si attacca Diego, l’io narrante del romanzo, quarantenne che assiste impotente alla lenta fine del padre ed in qualche modo sente di avere un debito nei suoi confronti: diventare una persona migliore di quel che è. Ma a questa stessa zattera, che ha le sembianze di un “panoramicissimo” casale di campagna in rovina, vogliono aggrapparsi anche l’ansioso telemaniaco Claudio e Fausto, venditore televisivo di patacche: da qui ha inizio l’avventura di un terzetto sbilenco e improbabile, cui si aggiungono –per amore o per forza- Sergio, comunista disilluso nonché creditore di Fausto, e la cuoca/massaggiatrice/punk Elisa. Un gruppo di perdenti, su cui nessuno scommetterebbe una lira; al loro fianco, il principe Abu e i suoi amici, braccianti “negri”, in una Campania non paradisiaca ma ben lontana dagli eccidi ghanesi.
Lentamente, tra incomprensioni, fatica e momenti di abbattimento, i miracoli richiamati dal titolo avvengono: il gruppo si compatta, i lavori procedono e l’agriturismo prende forma, attirando però l’attenzione di chi quel territorio controlla. Su una vecchia Giulia 1300 verde scuro fa la sua improvvisa apparizione Vito, un camorrista piccolo piccolo, che offre per conto della “famiglia” la sua protezione, come da copione non gratuita.
Mi fermo qui per non rivelar troppo di una storia originale e divertente che, dietro i tratti della commedia, nasconde riflessioni non banali, in primis su quello che Fabio Bartolomei definisce “il piano B”. Per iniziare, lo “schifo” di alcuni -lavoro, routine, noia e problemi economici- sarebbe molto più che la salvezza per altri: per Abu, Alex e Samuel l’incolumità è già una vittoria, vivere del proprio lavoro, mantenere intatte onestà e dignità è già aver raggiunto un traguardo. Ancora, e senza voler fare analisi storico-sociologiche spicciole, Bartolomei indica che i camorristi e i criminali in genere sono persone che nascono e muoiono non feroci a priori, ma privi di alternativa alla sopraffazione, incapaci di evadere dallo schema e di assaporare la difficoltà e l’attrattiva di una scelta.
Cosa accadrebbe se la società (in particolare quella sgangherata ma rappresentativa dei personaggi del romanzo) ripudiasse il loro ruolo? E se, fuori dalle costrizioni, gli stessi criminali scoprissero di avere essi stessi l’opportunità di un piano B?