Giulio Marchetti, La notte oscura, puntoacapo, 2012
«La notte oscura si colloca in uno spazio restrostante il giorno dove le cose non appaiono nella loro evidenza e limpidamente ma vanno ancora indagate nelle ragioni segrete»; (così Mattia Leombruno nella presentazione).
E così Giulio Marchetti: «bisogna osservare come tutto finisce/ all’interno di quella splendente oscurità/ e sapere che, nel silenzio,/ ognuno vuole essere ascoltato», p 19.
Questa notte oscura, è, quindi, condizione dell’essere a «stare di lato/ con le scarpe dure di fango/ e i capelli pieni di cielo/ a catturare qualche nota/ di stonata verità», p. 21.
Si veda, dunque, come il problema riguardi un’esistenza che non sa, o che rinunci, per propria volontà, all’afflato, tutto moderno, o forse esistenziale, del viaggio oltre le colonne d’Ercole, sapendo il rischio della sconfitta.
La poesia, allora, il cui unico scopo è quello di mostrarsi in una forma bastante a se stessa, leggibile totalmente nelle sue motivazioni di senso e di bellezza, non può fare a meno che guardare ai fratelli, ai maestri di sconoscenza, dichiarando senza niente volere o volere insegnare.
Troviamo, questo maestro, nell’incontro col cielo, un cielo dove “le stelle brillano come tante/ piccole morti», p. 35. Si capisce allora, come il compito di queste poesie sia l’abbassamento dello splendore della parola, lasciata a vivere, piuttosto, in quella piccola vita che percepisce i mutamenti infinitesimali degli elementi, sempre più sottratti al loro senso dallo spavaldo incedere di una vita roboante: «Dovrei uscire da me per credere ai giorni./ Il mio sangue scintilla senza farsi vedere./ La luce illumina a stento le cose», p 32.
Ricominciare daccapo, sembra dirci Giulio Marchetti; partire da una parola come istinto, strumento per smuovere la terra, captare le foglie d’autunno che sono in noi, «la sintassi (che) affila il silenzio un attimo prima/ dell’ultima parola» p 32.
Questa specie di refrain riferito a un concetto di naturalismo, ritorna tutte le volte che la parola è costretta a riflettere sul senso del suo essere e agire, in contrapposizione alle città tentacolari, dove la complessità finisce per essere sensazione, mentre qui, mi sembra, il problema riguardi la riappropriazione semantica, quindi significativamente progettuale, del «la ciclicità delle parole (che) si inscrive in quella del suono», p 40. Chi sa attendere, insomma, un po’ distante, è in grado di prevedere la catastrofe, qualcosa che sarà dicibile, non sappiamo quando, ma che avrà la forma di un’apocalisse inconsapevole, non fatta di sogni che si annunciano come visioni, ma come sfida per un’attesa aperta a tutte le eventualità. Se le parole si denudano, quindi, come quelle di Marchetti, è un bene, la scommessa di un nuovo inizio.
Sebastiano Aglieco
***
Pensieri tremendi
Non è la somma degli istanti
che illumina il giorno
ma l’eterna sequenza
di abitudini ostili.
Così la presenza diventa
un abuso tragico di spazio,
la carezza del vento un assedio,
la trasparenza dell’acqua un inganno
e si finisce per sperare
che la promessa dell’alba
non venga mantenuta.
*
17:51
Nulla agita il silenzio.
Dopo l’urlo del destino
avevo posto un’illusione
a guardia dell’eco.
L’ultima rosa rossa
è la faccia scura del tramonto,
la dolcezza dei petali
che si levano giudiziosi
ed entrano nel buio.
*
Oceano
Ci sono voci che aspettano
di essere guardate
da volti pieni di occhi
e volti che aspettano
di essere chiamati
da voci piene di nomi.
Quale avara beatitudine
ci assegna poche gocce di memoria
nell’abisso dei ricordi.
Non c’è altra verità
più assoluta della fine.
Le cose orribili sono orribili.
*
L’ultimo respiro
L’ultimo respiro
è il tentativo di esistere
oltre la fatica del vento.
Da questo flebile spostamento dell’aria
si intuisce la direzione
su cui poggiare lo sguardo
fino a perdere gli occhi
esattamente all’altezza
che avevo immaginato
fosse cielo.
Invece era amore.
*
Settembre
Dovrei uscire da me per credere ai giorni.
Il mio sangue scintilla senza farsi vedere.
La luce illumina a stento le cose.
Cerco sempre la verità all’interno delle forme.
La città si rassegna al sacrificio del vento.
Qualcosa si muove e lascia indietro
l’ultimo segno della sua perfezione.
La sintassi affila il silenzio un attimo prima
dell’ultima parola.
Ogni foglia d’autunno è un lato di me,
ogni pioggia il tentativo
di arrendermi al pianto.
*
La tregua
Questa breve pausa
del cielo
chiamata silenzio,
lascia intravedere qualcosa
oltre le labbra
dei sorrisi peggiori:
la scelta obbligata
tra l’urlo e il sospiro,
la verità
supposta all’interno
della parola fine.