La scrittura può salvare. Giuseppe Daddiego, So contare i giorni, Stilo Editrice, 2013, 108 pp.,€ 10,00
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di Giovanni Inzerillo
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Assai poco si parla pubblicamente di carceri e di detenuti. Eppure il degrado umano, l’abbandono sociale dei condannati, il sovraffollamento e lo stato di invivibilità dei luoghi di pena, l’alto tasso di suicidi di detenuti e di guardie carcerarie sono una questione ben nota in Italia – Pannella e i radicali docent. Pur se animati da valide motivazioni, gli scioperi della fame sembrano utili solo a far dimagrire i poveri malcapitati che protestano, detenuti compresi. E così, quelle brevi notizie, appena accennate in coda alle edizioni dei telegiornali, scivolano presto nel dimenticatoio. Perché, a voler essere onesti e un po’ sfacciati, non è neppure affar nostro; che marciscano pure in carcere questi delinquenti! In strada non li vogliamo mica! Se lo sono meritati! – pensa ma non dice la voce della nostra onesta coscienza.
Il perbenismo sociale e la cattiveria intellettuale, senza necessariamente voler esprimere un giudizio di valore, spinge la grande maggioranza di noi cittadini liberi e rispettabili a guardare poco di buon occhio questa realtà così chiusa e appartata, meno che mai a riflettere su problemi che non sono e non saranno mai nostri, almeno così siamo indotti a pensare. Allora le uniche, e forse più efficaci, voci ad alzarsi sono quelle di chi il carcere lo vive in prima persona e dentro quelle mura, tra condannati e secondini, tra delinquenti e guardie penitenziarie, il confine esistenziale e psicologico non è poi così marcato. Eppure, per una strana perversione che appartiene all’umano genere tutto, ci incuriosiscono e riscuotono un enorme successo i film ambientati dentro alle prigioni o quelle storie di scrittori maledetti che hanno trascorso in galera gran parte della loro esistenza. Come sottovalutare, ad esempio, il caso letterario di Charles Bukowski, fenomeno costruito ad arte forse, come vuole la “mafiosa” tradizione editoriale contemporanea, prima solo americana, adesso più che mai squisitamente italiana, dove, con un progetto costruito a tavolino, spesso illeggibili prove di scrittura spacciati per romanzi diventano bestsellers da milioni di copie vendute.
Quasi certamente Giuseppe Daddiego non diventerà famoso come Bukowski, non venderà milioni di copie tradotte in tutto il mondo né potrà contare sull’appoggio di una casa editrice forte in grado di costruire le dinamiche del suo successo letterario ma, per lo meno, conserverà quella decenza culturale e quell’umiltà comportamentale che, dopo una giovinezza votata alla ribellione e al crimine, non smetterà mai di trasmettere il suo messaggio. So contare i giorni, primo lavoro in prosa di Daddiego (precedenti sono le raccolte di poesie Un forte vento e L’alba di una nuova vita), è un racconto autobiografico, una «autobiografia asciutta e nuda», come la definisce Francesco Minervini nella sua prefazione al volume, dove senza pretese letterarie, come è giusto che sia, senza paraboliche elucubrazioni intellettualistico-filosofiche e con lo stile essenziale di chi non vuole a tutti i costi apparire esperto scrittore, l’autore descrive i fatti di vita così come sono accaduti. Daddiego apre la mente ai ricordi del suo passato con cui la coscienza non ha smesso, e non smetterà mai, di fare i conti. Quello che ne viene fuori è un ritratto futurista, uno di quelli dove ognuno dà come vuole senso e ordine al marasma indefinito di figure e di colori. Giuseppe, nel corso della sua vita allucinata e sfrenata, paga non soltanto le colpe di un evidente disagio familiare a cui è stato in un certo qual senso condannato dalla nascita (anche il padre e in fratello, come lui, conducono una vita fuori e dentro alle prigioni macchiandosi dei più svariati crimini) ma, soprattutto, assimila un disagio sociale strettamente legato alla periferia barese abitata da famiglie numerose e povere, a quel luogo che non lascerebbe scampo a nessuno, dove per vivere la paura e il dolore, una sorta di carcere all’aperto a pensarci bene, occorre essere forti:
«In quel momento, però, mi convinsi che non dovevo più avere paura, né di lui né di nessuno, e per farsela passare cosa c’era di meglio che tornare a rubare sotto il naso? […] Era diventato chiaro a tutti che non ero un debole. […] Se eri timido non la passavi liscia; invece più eri violento e più ti rispettavano, più apparivi forte e meno ti attaccavano».
Sembra allora non soltanto, come la pensavano i nostri antichi maestri, una questione di famiglia in cui i figli, anche quelli umanamente buoni, pagano sempre e comunque le colpe dei loro padri. Nelle moderne realtà disadattate, è una colpa di appartenenza sociale e non esclusivamente familiare; quel predominio, cioè, dell’inciviltà legata alla più sconcertante povertà contro cui si oppone, come una sorta di terapia d’urto, la spasmodica ricerca del denaro:
«Rubavamo e basta, non riuscivamo a pensare che esistesse altro. […] Io non riuscivo a credere che per me ci fosse altro. «è il mio destino», le ripetevo. […] Ogni volta che sento parlare della “società civile” vorrei che qualcuno mi indicasse la strada per raggiungerla. Vorrei conoscerla, se mi è possibile. […] Se un ragazzo è circondato dal male, come può fare in modo che non gli cresca anche dentro?»
Certo, ciò non deve in alcun modo giustificare il crimine né dare senso all’illegalità. Daddiego infatti non nasconde come il vizio, troppo spesso immotivato, istintivo e corroborato dall’ignoranza, abbia deturpato la sua intera giovinezza:
«Vagavo con gli occhi nel silenzio della notte, rimpiangendo quel tempo che, deviato dall’ignoranza, avevo creduto di possedere».
Fortunatamente però, anche le situazioni più compromesse possono prendere strade inaspettate e, perché no, felici. L’amore di una donna, come nella più abusata tradizione letteraria, irrompe nella vita di Giuseppe in tutta la sua potenza salvifica e porta alla radicale presa di coscienza di uno sbaglio, di un torto non tanto rivolto a se stesso quanto ad altre innocenti persone:
«Solo Lucia mi faceva star bene […] con lei vivevo un’esistenza diversa. […] Sì è vero, sono stato un delinquente, ma non conoscevo le mie vittime altrimenti la coscienza mi avrebbe fermato. Io prima non capivo. […] Mi è stata tolta la vita e io l’ho quasi distrutta; adesso lei si vendica e io cammino con il cuore tra le mani, alla ricerca di un’altra esistenza».
E non è stata solo una donna a compiere il suo miracolo. Fra le pagine della Bibbia, di altri poeti e persino di Annie Besant, nell’esistenza di Giuseppe la poesia e la scrittura hanno anche loro compiuto uno straordinario miracolo, quel prodigio che dovrebbe meravigliare la critica letteraria assai più di quanto facciano romanzi scritti bene di illustri scrittori. Qui la scrittura non ha portato alla presa di coscienza (un po’ fasulla e abusata a volere essere onesti) di quell’io frammentato in tantissime minuscole parti (riposino definitivamente in pace Hesse e Svevo, Zanzotto e un po’ tutti i poeti e narratori del Novecento) che tirando le somme, gira di qua e trasforma di là, non riesce mai a ricomporsi. Qui la scrittura ha operato, caso più unico che raro, la sua inestimabile e soprattutto utile salvezza:
«Quegli applausi mi avevano stimolato a non mollare e anzi ad approfondire la mia passione: passavo i pomeriggi in libreria ad ascoltare le presentazioni dei libri, scoprii che c’erano tante cose a cui potevo interessarmi; scoprii la teosofia: concetti e parole che mi affascinavano e mi aprivano la mente».
Questo mirabile esempio porta allora tutti noi ad augurare a Giuseppe Daddiego, e a chi come lui ha condotto o conduce ancora una vita ai margini della legalità, una più felice ed «altra esistenza».
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