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Prima pagina de la Domenica del Corriere del 1 maggio 1960
1. Garibaldi tra le righe
Fin dall’età classica la Fama, personificazione mitologica della vox populi, viene rappresentata come una donna alata che sorvola campi e cortei popolari con in mano una tromba. All’approssimarsi della prima metà dell’Ottocento questo nume tutelare dei noti era tutto intento a lanciare in ogni angolo d’Europa e d’America romanzi, memorie, diari e corrispondenze che vedevano come protagonista il Cristo nizzardo. Una miriade di narrazioni che, apportando ognuna piccoli e fantasiosi aneddoti sulla vita dell’eroe, contribuì nel suo insieme a creare un personaggio completo, con i suoi lati pubblici (quelli del condottiero) e quelli più privati ed affascinanti (quelli familiari).
Avvicinando la sua tromba all’orecchio dei romanzieri, la Fama suggerì il nome di Garibaldi a quanti cercassero un personaggio da inserire nelle ferree categorie del racconto popolare, tese a polarizzare il sentimento del lettore nella netta opposizione Bene/Male.
L’adeguamento del politico al letterario fu una task semplicissima per i romantici: nella letteratura per così dire “storica”, o comunque in quei romanzi che si occupavano dei temi cari alla politica risorgimentale, l’idiosincrasia fra i popoli “oppressore” ed “oppresso” venne resa attraverso la vicenda di un singolo personaggio, nella persona del quale il lettore poteva più facilmente identificarsi. L’umanizzazione del discorso patriottico, conseguita arricchendo quest’ultimo di elementi sentimentali, esotici – in definitiva passionali – riuscì nell’ambizioso risultato di creare un forte senso di appartenenza con la nazione attraverso «lo sfruttamento del culto della personalità»[1].
Di questa svolta individualistica della letteratura risorgimentale sono sintomatiche, in primo luogo, le memorie e biografie, vere e proprie agiografie di questi santi laici.
La prima “biografia ufficiale” di Garibaldi fu quella edita nel 1850 dall’amico Giovanni Battista Cuneo, che sostenne l’eroe sin dalla parentesi sudamericana. Un esperimento biografico che ci rimane a testimonianza di quel processo «di creazione, promozione e controllo della memoria» posto in atto dalla politica pro-garibaldina all’indomani dell’esperienza romana del ’49. Per accorpare in un’esposizione letteraria coerente le memorie dell’esule, Cuneo prese in prestito dalla finzione alcuni artifizi narrativi che essenzialmente fecero di questa biografia lo stereotipo della «vita esemplare». La formula del romanzo d’avventura adottata da Cuneo – che si rivelò particolarmente fortunata e venne imitata dai successi “biografi” di Garibaldi – si snodava nell’articolazione della vita dell’eroe in tre livelli: la gioventù (con i primi episodi di eroismo); la formazione (nelle lontane terre sudamericane); l’impresa (la battaglia romana contro il Nemico). L’aggiunta di episodi di alto pathos in ognuna delle tre esperienze contribuiva poi nell’insieme a tenere vivo l’interesse del lettore ed a favorirne l’empatia con il protagonista[2].
Le tre epoche di Garibaldi
Per passare in rassegna un altro approccio tipico di quegli anni, bisogna ricordare lo shift che dagli anni ’50 interessò i temi del romanzo romantico inglese, dalle ambientazioni gotiche della letteratura storica ed ossianica ai luoghi dell’Italia Risorgimentale. Qui quelle che erano state le rapide impressioni di Margaret Fuller si convertono in veri e propri topoi, che sviluppano le fattezze «pittoresche» del Garibaldi letterario. Il vestiario banditesco, il fascino esercitato sulle donne, la complessa figura di Anita, tutte trovano spazio e sviluppo nella penna dei romanzieri[3] che lo scelgono per la tanto strana quanto naturale aria romanzesca delle spedizioni garibaldine, o meglio per una relazione di senso inverso, se si prende per vero il commento che nel maggio ’60 fece il drammaturgo Prosper Mériméee: «mi piace la spedizione di Garibaldi perché amo i romanzi e le storie di avventura![4]»
Del Romanzo garibaldino, rappresentato da un enorme quantità di produzioni economiche e popolari, prenderemo in esame solo due esempi: l’inglese Modern Society in Rome [5], dove i destini di Gran Bretagna e Italia si intrecciano grazie all’espediente narrativo della personificazione dei due paesi nella vicenda di una coppia inglese e di Garibaldi e Anita; e l’espressione di questa moda letteraria che ha avuto più fortuna, il romanzo omonimo di Alexandre Dumas padre.
Il Garibaldi di Dumas fu sicuramente uno dei bestseller di quell’anno. La notizia dell’edizione delle memorie dell’eroe, che in giugno Dumas raggiunse a bordo dell’Emma in Sicilia, e le corrispondenze di questi con varie testate liberali francesi crearono una fruttuosa attesa per l’uscita del romanzo. La stesura della biografia garibaldina fu così un vero e proprio endorsement del famoso romanziere mulatto «per sostenere la popolarità» dell’amico Garibaldi[6].
Alexandre Dumas assiste al sonno di Garibaldi a Milazzo
Lo spazio dedicato all’esito letterario non può chiudersi senza spendere due parole sulla figura della prima moglie, Anita. La forza comunicativa di questa amazzone, dedita alla cura del marito ed anche guerriera per amore della libertà, donò lustro e completò il ritratto già affascinante dell’eroe dei due mondi. La sua tragica morte, poi, diede slancio alla tendenza retorica di descriverlo «colto nel suo dramma fatto di amore, libertà e avventura[7]. Senza addentrarci nell’analisi di questa complessa figura, basterà affermare la sua funzione di contraltare domestico alla coraggiosa azione politica di Garibaldi, conferendo a quest’ultimo un’aria domestica e familiare che lo avvicinò ulteriormente al proprio pubblico. Sia Anita con il suo modello di madre e moglie patriota – unica figura femminile, assieme a quella della madre dell’eroe, a comparire nelle memorie autografe di Garibaldi – che l’amore nutrito dal marito per lei contribuirono, inoltre, ad affondare indissolubilmente le radici della fama garibaldina presso il pubblico femminile, che proiettava le proprie fantasie sull’appassionato corsaro biondo. Una presenza, quella di Anita e della «passione d’amore ben indirizzata» di Garibaldi nei suoi confronti, che contribuì a proiettare l’eroe nell’alveo del mito costitutivo della nazione: la famiglia, romanticamente intesa come frutto dell’amore, ed il rafforzamento della sua immagine di maschio italiano, rimarcata proprio dall’atteggiamento “predatorio” che Garibaldi ebbe nei suoi confronti. È grazie al sentimento amoroso che dà vita alle famiglie che la donna può assumere il ruolo di madre, moglie e sorella del patriota, diventando vestale dello spirito della nazione[8].
2. Garibaldi fu ferito
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In conclusione, cosa è stato Garibaldi?
Innanzi tutto un «capo bandito». Ma un bandito, buono, affascinante; un corsaro a cui avevano costruito un ordine depravato perché potesse combattere coraggiosamente in nome della democrazia e della libertà. Un capo “selvaggio”, ma di quel mito di una buona primitività, che ci fa sembrare i primi anni sudamericani una «pastorale età dell’oro», nella quale Garibaldi può sviluppare modelli di vita associativa (quelli del sansimonismo), ma che gli da spazio di azione ed esito individuale[9]. Ardito, tenace come d’altronde la sua prima moglie, la cui figura in vita e tragica morte non fecero che irrobustire la fama leggendaria del nizzardo.
Giuseppe Garibaldi nel 1870
Con gli anni, però, ed il physique du role che veniva meno, il mitico Garibaldi in poncho e spada sguainata, lasciò il passo ad un Generale saggio, gentile cionondimeno carismatico e sempre più radicale nelle idee (mannaggia a quel Barrault che gli prestò per primo il Catechismo di Saint-Simon!)[10]. Soprattutto, l’immagine che si fa strada sin dai tempi della ritirata da Roma e dell’incontro con le folle estatiche di italiani è quella di un eroe “umile”. Di un italiano buono, come lo sono tutti i suoi seguaci, che si oppone allo straniero cattivo, come lo sono tutti gli austriaci, il papato (capitolo a parte si dovrebbe spendere per il suo anticlericalismo!) ed i traditori francesi.
Insomma, l’eroe da favola, con la sua eroina, la lotta contro il male ed il lieto fine: l’unificazione italiana. Il protagonista dei sogni di un’epoca, quella del romanticismo, che coinvolse tutta l’Europa, capace di affiliarsi all’immagine del patriota italiano ed alla sua causa[11]. Al netto di questo makeover di rispettabilità, si è voluto sottolineare il lascito di un mito roboante essenzialmente costruito negli anni ’40. Un processo che vide il suo apice con l’inaugurazione della stagione agiografica da parte di Cuneo, redattore di una biografia “politica” che fondendo il messaggio patriottico e radicale agli strumenti della narrativa popolare
fa in modo che la persona Garibaldi sostenga il personaggio pubblico Garibaldi, e ne costruisce la biografia in modo tale che la vita immaginaria potenzi il fascino di quella vera.
Una descrizione che sembra adattarsi quanto a questa biografia quanto per sineddoche all’intera vicenda umana dell’eroe che abbiamo analizzato.
Il successo mediatico del Garibaldi generale, quello degli anni ’60 e ’70, è infatti impensabile senza considerare l’affiliazione stabilitasi vent’anni prima. Le masse, per dirla in altre parole, erano già mobilitate in favore del patriota ed aspettavano solo un nuovo appello; la sua fama lo precedeva intercedendo in suo favore. Quando Garibaldi tornò in patria alla fine degli anni ’50, con una nuova immagine “ripulita” e paterna, non dovette far altro che rassicurare il popolo sul persistere delle sue ambizioni strategiche, confermare il perdurare di un’aurea che era già stata costruita. Il suo ruolo, soprattutto dopo l’ingresso preponderante della politica cavouriana, fu quindi quello di tenere sempre alimentate le fila dei volontari e mantenere viva la continuità ideologica ed affettiva con i moti quarantotteschi[12]. Una parte che i fautori del “mito garibaldino” fecero propria, rendendo attraverso le pagine dei quotidiani del secondo ottocento la figura di un uomo straordinario fuori dalle regole, indipendente dal mondo della politica[13].
Caricatura geografica dell’Italia con le sembianze di Garibaldi che scaccia il Papa (1867 circa)
A palesare questo sopravanzo del mito sulla persona, sta il fatto che Garibaldi, malgrado i tentativi di gestirlo attraverso l’azione pubblicistica degli anni ’60 ed i commenti esterni che continuò a pubblicare dopo il definitivo ritiro a Caprera negli anni ‘70, non riuscì mai ad evolvere il suo ruolo di politico “di professione” (tanto per non lasciare il buon vecchio Weber nel dimenticatoio), che infatti non andò mai oltre la vicepresidenza (onoraria!) della Società Nazionale. In altri termini, Garibaldi non riuscì a trasformarsi in leader razionale, dimostrando anzi una «goffagine politica» che non lo fece mai uscire dall’immagine del leone[14].
L’analisi fin qui condotta ha voluto tener conto di un preciso arco temporale, sicuramente più lungo della vicenda biografica di Garibaldi, ma pur sempre limitato ai confini delle lotte per l’unificazione da un lato ed i primi anni di unità e quindi di costruzione del sentimento di appartenenza nazionale dall’altro. Non sembra rendere giustizia alla memoria storica del nostro paese, però, tacere sugli sviluppi che la fama di Garibaldi e del periodo di storia nazionale che esso rappresenta, il Risorgimento, ha preso nel corso del XX secolo ed oggi, a centocinquanta anni da quei fatti. Una fortuna che, bisogna sottolineare, attiene sia al culto laico – e quindi all’aspetto più popolare della fama dell’eroe dei due mondi – sia alla storiografia che, come vedremo, seguirà gli sviluppi politici passando da un periodo “agiografico” ad un atteggiamento più critico rispetto alla vicenda risorgimentale.
Schematicamente, si posso riassumere in diversi periodi le reazioni dell’opinione pubblica italiana alla figura del padre fondatore: gli anni del regno, il ventennio fascista, la prima esperienza repubblicana, la seconda repubblica.
Una delle rappresentazioni contemporanee del Generale
Come abbiamo già suggerito in precedenza, fino ai primi decenni del Novecento, il culto di Garibaldi non accennò a scemare, tanto che cimeli e reliquie laiche continuarono a proliferare in tutto lo stivale. Fu sotto il regime mussoliniano che si registrò il primo cambio di rotta del «garibaldinismo». Il tentativo, logicamente, fu quello di “fascistizzare” Garibaldi, sia spingendo su quelle virtù che più si adattavano allo spirito italico propugnato dal regime (l’ardore e la visione militarizzata del patriottismo), sia creando un continuum fra il «Dittatore» ottocentesco ed il Duce. La Repubblica poi, si preoccupò a sua volta di costruire un leitmotiv nella storia nazionale che collegasse il Risorgimento alla Resistenza, alimentando un culto di italianità “buona”, schietta ed amante della libertà. Giunti ormai però al centenario della morte la figura di Garibaldi cominciò a declinare, arrivando fino all’esperienza più recente. Non può nascondersi, infatti, il crescente sfilacciamento del legame affettivo del popolo italiano con i simboli del Risorgimento, il depauperamento di quel culto laico così tenace al tempo delle grandi svolte politiche – veri e propri cambi di regime – vissute dal giovane Stato, e lentamente trasformatosi in «un simbolismo politico a carattere più antagonista e sciovinista», e che nella passato più recente ha vissuto una desolante deriva macchiettistica dei riti e delle tradizioni dell’autocelebrazione nazionale[15].
In ultimo, bisognerà rendere anche giustizia ad un altro aspetto della commemorazione del Risorgimento in Italia, ovvero la sua contrapposizione in termini, l’ anti-risorgimento, cioè
l’intreccio dei pensieri, degli ideali e dei sentimenti di coloro che non si sono riconosciuti nell’opera del Risorgimento come si realizzò.
Ovvero anche lo
stato d’animo di coloro che hanno considerato il Risorgimento effettivo una strozzatura del Risorgimento che essi avrebbero voluto che si fosse realizzato [16].
Un Risorgimento che venne visto come «sopruso eroico della sua minoranza [17]»; una tesi che, per quanto opinabile, può fornire un ottimo punto di approdo per questa riflessione: che se ne parli bene o che se ne parli male di Garibaldi s’è sempre parlato!
[Bibliografia]
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Note (↵ returns to text)
- L. RIALL, Garibaldi. Invenzione di un eroe, trad. it. Davide Scaffei, Bari, Laterza, 2007, pp. 12, 15, 57↵
- RIALL, Garibaldi, op. cit., p. 172↵
- RIALL, Garibaldi, op. cit., p. 175 e segg.↵
- RIALL, Garibaldi, op. cit., p. 317↵
- Il soggetto di Modern Society in Rome è inserito in una più generale tendenza del romanzo romantico, in particolar modo della sua forma “militante”, di rendere attraverso vicende amorose contrasti e relazioni fra nazioni ed etnie. Per citare un esempio di questo espediente narrativo vicino all’ambito di questo studio, proprio in un romanzo di cui l’autore è Giuseppe Garibaldi, Clelia, il legame politico fra Italia e Inghilterra è sancito da quello amoroso fra due coppie “internazionali”. La traduzione in atteggiamenti amorosi e devianze sentimentali delle questioni di politica esterna è peraltro una soluzione che Garibaldi adotterà anche per gli altri due romanzi militanti da lui editi, dove «la figura dei traditori della nazione italiana» è vestita dai panni di «preti che incessantemente attentano alle virtù delle eroine della nazione». La purezza ideale della nazione arriva così ad identificarsi con quella delle sue donne, tanto che Garibaldi arriverà a tuonare ai «Concittadini miei! Il giorno, in cui voi sarete uniti … lo straniero non calpesterà il vostro suolo! Non contaminerà i vostri talami! L’Italia avrà ripreso il suo posto tra le prime nazioni del mondo!» Per una panoramica di questo connubio fra istanze nazionaliste e lo sviluppo di istanze sessuali e sentimentali. Vd. A. M. BANTI, L’onore della nazione. Identità sessuali e violenza nel nazionalismo europeo dal XVIII secolo alla Grande Guerra, Torino, Einaudi 2005, (in particolare pp. 208, 256, 259)↵
- Cit. in BANTI, L’onore della nazione op. cit., p. 297↵
- BANTI, L’onore della nazione, op. cit. p. 191↵
- Vd. A. M. BANTI, L’onore della nazione, op. cit., p. 217, 294-295↵
- Cfr. A. M. BANTI, L’onore della nazione, op. cit., pp. 184, 185↵
- L. RIALL, Garibaldi. L’invenzione di un eroe, trad. it. D. Scaffei, Laterza, Bari, 2007 pp. XII – XIII↵
- RIALL, Garibaldi, op. cit., p. XXVIII↵
- Un capitolo a parte, bisognerebbe dedicare al compito che Cavour aveva pensato per Garibaldi. Fermamente convinto del ruolo dell’esercito piemontese, lo stratega torinese, “relegò” Garibaldi al ruolo di agitatore ed “emozionatore” pubblico, sperando che la sua ars oratoria, in grado di infiammare le fosse, potesse coinvolgere i volontari in modo da ingrossare le fila dell’esercito regio, oltre che insinuare la diserzione fra le fila di quello austriaco. Cfr. in RIALL, Garibaldi, op. cit., pp. 198 e segg.↵
- i.e. RIALL, Garibaldi, op. cit., p. 245↵
- Cfr. in RIALL, Garibaldi, op. cit.,pp. 213, 418, 428↵
- Per questo rapido sguardo sullo sviluppo del culto laico garibaldino nell’esperienza dell’Italia unita cfr. l’Introduzione al saggio di RIALL, Garibaldi op. cit. pp. XV – XXI, 475↵
- R. LILL, F. VALSECCHI edd., Il nazionalismo in Italia e in Germania fino alla Prima Guerra Mondiale, Bologna, il Mulino, 1982 p. 100↵
- La citazione riporta la posizione del poeta e scrittore romagnolo Alfredo Oriani che nella sua analisi storico politica – fra le cui produzioni si citerà solamente La lotta politica in Italia (1892) – ha voluto intendere la parentesi che ha dato genesi allo stato unitario un «incidente» contribuito dagli interessi stranieri.↵
-
L. RIALL, Garibaldi. Invenzione di un eroe, trad. it. Davide Scaffei, Bari, Laterza, 2007
M. BANTI, L’onore della nazione. Identità sessuali e violenza nel nazionalismo europeo dal XVIII secolo alla Grande Guerra, Torino, Einaudi 2005
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