
Firenze
Sta di fronte ai nostri occhi Firenze moderna.
Una grande città moderna, relativamente all’Italia. Una grande città di tradizione mondiale, che sta diventando, facendosi, vestendosi alla moderna. Una città che ha ormai superato la crisi del passaggio dall’antico al moderno, ed ha deciso oramai d’esser moderna, ed a tutti i costi, anche se di moderno non avrà che i fronzoli e gli accessori : i tramvai che camminano piano ad uso delle signore incinta o dei pensionati artritici (perchè chi vuol far presto, a Firenze va a piedi), gli automobili a nolo per chi non ce l’ha di proprio e ci vuol condurre un giorno la moglie.
È la crisi d’impianto della nuova civiltà, che ha deciso di vivere al caldo d’ inverno e d’avere il bagno a casa ; che illumina a luce elettrica e riscalda a antracite ; che si fa portare in ascensore ed esige il cesso a sciacquone.
Un giorno in una via di Firenze, una bottega di oggetti casalinghi, di bagni, di tinozze, e water closets, di saponiere, di alpacche, di oggetti lucenti e meravigliosi scoperti dall’industria umana per rendere più pulito, più pronto, più sano, e più sobrio il vitto e la cottura ; una bottega di pentole dove si cuoce col vapore lasciando i vegetali ricchi dei loro sali e dei loro sapori, non guastati, non dissanguati, non spolpati dal bagno dell’acqua ; una bottega che io ammiro e che mi dà tanta gioia d’esser moderno di sentirmi capace d’apprezzare e di godere e di veder la bellezza di queste cose moderne, nostre, contemporanee, e così rispecchianti i nostri desideri e bisogni ; una bottega che infine non nomino, perchè non voglio lasciar nemmeno supporre, che le faccio della reclame questa bottega, infine, aveva esposto nelle proprie vetrine, due modelli di cucina, e due modelli di latrina.
Si, anche di latrina, ed aveva ragione, abbiate pazienza. La cucina e la latrina d’un tempo ; la cucina e la latrina d’oggi, La cucina colla cenere, e col carbone, con le terraglie di Montelupo a fiorami contadineschi, colle carte unte, colla ventola bruciacchiata da una parte e il manico annerito per avere attizzato il fuoco, coi cocci svetriati, un po’ fessi, smozzicati, gli orli a grugni e a punte, colle mezzine d’acqua di pozzo, aperta a tutta la polvere, col paiolo fuligginoso pendente alla catena in mezzo al focolare e le pareti segnate dai fiammiferi, fregati al buio per accendere la lampada a petrolio, bisunta ; la cucina di ieri, insomma, la cucina dei babbi e delle nonne, la cucina dei quartieri vecchi e nobili e di quelli vecchi ed ignobili. C’era poi la cucina d’oggi : la cucina economica, tutt ‘ardente, con l’acqua calda chiusa, pronta per tutto, il forno per avere piatti asciutti e caldi, con su tegami e pentole e bricchi, d’alluminio lucente, dai manichi coperti di amianto, per riparare dal rapido bruciore, e tersi dall’alto vigilavano magnifici i rami nichelati, illuminati dalla luce elettrica, pulita, rapida, fredda ; la cucina moderna, con la cannella dell’acqua potabile, bianchissima, con le pareti per metà porcellana, come un lavoratorio di chimica, con la bilancia di precisione non tanto a tutela delle forniture quanto a tutela del regime e del condimento ; e molti strumenti per evitare la mano dell’uomo, più pronti, più puliti soprattutto. Cosi stavan di fronte due mondi. (1917)
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( Giuseppe Prezzolini, “Firenze moderna” da “Uomini 22 e città 3”. pag.306/308 – Vallecchi Editore Firenze, 1920 )