
Tra i primi articoli che ho scritto in questo blog (quanto tempo!) ve n’è uno piuttosto significativo che riguarda l’obbligatorietà dell’azione penale. Nel commento ho scritto che l’azione penale obbligatoria – oggi come oggi – è più o meno un residuato bellico, il fasto perduto di un’epoca in cui si credeva effettivamente che l’obbligo imposto al Pubblico Ministero di esercitare l’azione penale (ogni qual volta venga a conoscenza di una notitia criminis) fosse la soluzione definitiva contro le ingiustizie e gli squilibri giudiziari. Da qui, l’introduzione nella nostra Costituzione del principio sancito all’art. 112 Cost., e cioè della obbligatorietà dell’azione penale.
Eppure – a conti fatti – dopo settantanni di operatività del principio, assistiamo oggi al fallimento del sistema giudiziario in ogni suo settore. Soprattutto in quello penale. Soprattutto nella fase più delicata dell’attività procedurale penale: l’indagine preliminare e il rinvio a giudizio. Le vicende sulla uccisione di Meredith Kercher lo dimostrano in modo inequivocabile. Ma chiaramente sono vicende eclatanti che non rispecchiano in pieno il sottobosco dell’attività giudiziaria, ormai «condannata» in circuiti viziosi, nei quali l’azione penale obbligatoria è divenuta condanna penale obbligatoria per via dell’eccessivo formalismo del principio, che non tiene conto della mutata realtà sociale, del caso concreto e di altri aspetti di giustizia sociale che invece informarono i nostri costituenti nella giusta scelta di perseguire il principio di uguaglianza sostanziale in vece del principio liberale di uguaglianza formale.
Ma il formalismo insito nel mero obbligo di esercitare l’azione penale, è solo un aspetto (negativo) della nostra disastrata giustizia. Un altro aspetto piuttosto qualificante dell’iniquità del sistema, è l’abuso che si fa oggigiorno della custodia cautelare in carcere o degli arresti domiciliari. I quali, seppure siano soggetti a rigidi princìpi applicativi, nella pratica vengono utilizzati con una certa disinvoltura dai giudici di merito. Non a caso, oggi la carcerazione preventiva (la più pesante delle misure cautelari), è usata più a scopo retributivo anticipato e «confessorio» che per le finalità stabilite dalla legge: evitare l’inquinamento delle prove, evitare il pericolo di fuga, evitare la reiterazione del reato. Addirittura, è la legge stessa – in alcuni casi (es. l’omicidio) – che stabilisce una presunzione, affermando che dinanzi a queste ipotesi delittuose (di particolare allarme sociale), la custodia cautelare in carcere è quasi obbligatoria.
Ora, è chiaro che l’applicazione del carcere preventivo (e degli arresti domiciliari), davanti a questo sistematico abuso (o uso distorto dello strumento), ha finito per assumere la consistenza prevalente (se non unica) di strumento anticipatorio di condanna, fino a valorizzare processualmente (per le necessarie esigenze) non più il fumus di una presunta colpevolezza, quanto la certezza della colpevolezza, e dunque la quasi inevitabilità della condanna, prescindendo (troppo spesso) dal quadro probatorio offerto e in totale spretto del principio di cui all’art. 533 comma 1, c.p.p.
Se poi aggiungiamo che oggigiorno i tempi di carcerazione preventiva rispetto ai tempi del processo sono eccessivi, la crepa diventa un burrone. Troppe volte accade che la persona soggetta alla misura della custodia cautelare in carcere attenda anche molti mesi se non diversi anni (dipende dall’entità del reato e dai termini di scadenza della custodia cautelare), prima di vedersi iniziare e concludere il processo. Eppure, senza disturbare il «processo breve», già il principio del giusto processo (art. 111 Cost.) richiederebbe tempi veloci e certi per i processi (per non parlare della giustizia europea, che sul punto ci sanziona un giorno sì e l’altro pure), e in generale la nostra Costituzione, la quale già esige che la limitazione della libertà personale (diversa da quella conseguente a una condanna definitiva) debba essere disposta nei limiti dello strettamente necessario, con tempi molto ristretti e brevi e nel rispetto della dignità delle persone.
Niente di tutto questo. La nostra giustizia, tutt’oggi è improntata a una filosofia più inquisitoria che accusatoria (nonostante la riforma del 1990), e ha col tempo svalorizzato se non demolito anche i princìpi basilari di molti istituti a tutela del cittadino indagato/imputato. Come dicevo più su, forse inconsciamente o forse consapevolmente, la pratica giudiziaria è passata dal formalismo dell’azione penale obbligatoria, alla (sempre più frequente) condanna penale obbligatoria di fatto.
di Martino © 2011 Il Jester






