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Gli amori folli

Creato il 06 giugno 2010 da Giorgioplacereani
Alain Resnais
“Gli amori folli” (“Les Herbes folles”) di Alain Resnais è un film di una bellezza così accecante che è come guardare il sole: sulla retina si fissa l'immagine in negativo, paradossalmente più discernibile. Perché quella comprensione della vita, dell'amore, dell'umanità e della sciocchezza che “Les Herbes folles” ci fornisce, non la fornisce attraverso la logica di uno sviluppo drammaturgico consequenziale ma, al contrario, attraverso l'il/logica del nonsense. Attenzione: il/logica non vuol dire mancanza di logica - bensì una logica superiore, che sussume e comprende la prima. Si potrebbe fare un paragone visivo, per quel che vale, col cubismo analitico di Picasso e Braque: pensiamo al celebre “Serbatoio a Horta de Ebro” di Picasso (1909): è una costruzione umana vista da un extraterrestre che la ridefinisce nelle proprie categorie visuali, superiori alle nostre perché vanno oltre la singolarità e la temporaneità della prospettiva umana. Una super-logica di questo tipo è operante nel film di Resnais, e in tutta la sua opera. Un cinema “a falde”, secondo la famosa definizione di Deleuze, un cinema labirintico della compresenza di tutte le possibilità, un cinema (“intrinsecamente musicale”: Sergio Arecco) nel quale Resnais distrugge la linearità narrativa, frammenta il concatenamento drammatico della pièce bien faite e del film bien fait - col che, ci mostra un altro uso del cinema.
Georges (André Dussollier) trova in terra il portafoglio coi documenti di Marguerite, dentista e aviatrice (Sabine Azéma), abbandonato dopo uno scippo. Glielo fa restituire dalla polizia - e poi comincia a perseguitarla in un'assurda ossessione amorosa. Nessun successo. Ma poi, l'ossessione d'amore passa a Marguerite. Non aspettatevi teoremi psicologici qui! “Tutti i miei film, almeno quelli di finzione, non sono stati altro che un concepire degli shock emotivi e dar loro un seguito” (Alain Resnais). Compreso “Les Herbes folles”, con la sua follia, con l'infinita serie di simmetrie e doppioni (il raddoppiamento è la forza generatrice del cinema di Resnais), con il suo delizioso umorismo, spesso tinto di nero, nel quale si incontrano, alla Lautréamont, una zip inceppata e la fanfara della Twentieth Century Fox di Alfred Newman (sulla scritta “Fine” - che non è la fine).
“Les Herbes folles” è tutto fatto di ellissi, di non sequitur, di comportamenti inspiegati, di misteri. Ad esempio la mai svelata storia anteriore (o solo rêverie aggressiva?) di Georges: gli impulsi violenti da controllare, le fantasie di omicidio, la paura di se stesso; come Norman Bates, si inceppa davanti a certe parole (chiedendo al telefono un incontro a Marguerite: “Non la ucc... non la mangio mica!”). Nota che quando in seguito Marguerite è ossessionata d'amore per Georges, la vediamo seduta al tavolino di un locale che distrugge una pastafrolla con il cucchiaino perché non vuole usare il coltello - sublime esempio di transfert, poiché è Georges quello che si blocca davanti ai concetti violenti.
Un'immagine centrale proprio a questo punto è quando Marguerite viene “colpita” dallo sguardo di Georges che la cerca nella piazza: quando la mdp in soggettiva l'incontra, lei piega la testa come se ricevesse uno schiaffo. Questo richiama il fumetto, con la sua integrazione di concetto e figura. “Les Herbes folles” possiede quel senso di “fondata assurdità”, produttiva di un'intuizione superiore, che si ritrova in certi fumetti comico-surreali (sono autorizzato a dirlo in quanto Resnais è un grande amatore di fumetti: li tiene presenti e li utilizza in vari film, vi dedica tutto “I Want to Go Home”). Potrei citare a caso il Cetriolo Mascherato di Nikita Mandryka o gli “Odd Bodkins” di Dan O'Neill, ma scelgo “Krazy Kat” di George Herriman, che, cronologicamente anteriore, li comprende e li supera.
La voce narrante, all'inizio, parlandoci confidenzialmente della vita dice una cosa importante sulle storie e sul cinema: se si vuole che tutti i pezzi combacino, “occorre... fare delle rinunce… scendere a compromessi”. Possiamo trarre un senso dal racconto solo in via provvisoria e intuitiva (per questo sopra parlavo di un'immagine in negativo). Eppure il carattere aperto del racconto di Resnais non ci porta alla scetticismo ma a una sorta di conoscenza totale.
Va aggiunto che la (misteriosa) voce narrante del film risponde a quel bisogno di un'istanza esterna, di una sorta di “testo altro” di riferimento, ch'è così presente nel cinema di Resnais: dalle teorie di Laborit in “Mon Oncle d'Amérique” ai due gatti del fumetto in “I Want to Go Home”, da quell'inconscio collettivo moderno che sono le canzonette in “Parole, parole, parole...” alla narrativa febbrile del vecchio scrittore morente in “Providence”, dal testo teatrale che si sviluppa secondo uno schema binario in “Smoking/No Smoking” alla forma obbligata di un'operetta del 1925 in “Pas sur la bouche”, e così via... Questo “testo altro” sembra venire utilizzato come uno scheletro cui agganciare l'atomizzazione narrativa di un cinema che affronta le sue infinite possibilità senza negarsene nessuna. Nota però che questa istanza esterna non è mai definitiva e risolutiva (neanche nel caso di Laborit). Sorridente maestro del paradosso, Resnais riconosce sempre al proprio cinema il massimo di libertà. Anche in “Les Herbes folles” la voce narrante si corregge, elabora mentre parla, non si nega alle strategie retoriche della reticenza.
Le herbes folles in francese sono le erbacce, ed è meglio usare il titolo originale (il quale naturalmente porta in sé un accenno a quell'elemento di follia che attraversa il film) poiché Resnais si riferisce specificamente alle erbacce e alla loro vitalità insopprimibile. I titoli di testa compaiono su erbacce così forti da rompere il cemento del marciapiede e sopravvivere nelle crepe. Che gli uomini siano identificati con le herbes folles basta a dirlo la dissolvenza iniziale che fonde quelle erbacce sul marciapiede con gambe umane che camminano. Ma le erbacce, oltre che folli e resistenti, sono anche umili: la loro esistenza è precaria (non per niente nel film s'insiste molto su tosaerba e prati tosati) - al pari di quella degli esseri umani. Questo film allegramente attraversato da presagi di morte (il discorso sull'aviatrice degli anni '30 perita in un volo, la citazione de “I ponti di Toko-ri” con la morte degli aviatori) finisce con una triplice morte fuori campo nella caduta dell'aereo – ma poi, attraverso un bellissimo montaggio di carrellate sull'esistente e sulla natura (che per definizione è immortale), ci porta nella camera di una bambina, che naturalmente rappresenta il futuro. Per qualche herbe folle che muore, tante altre ne spuntano.
Ma non solo: questa bambina chiude il racconto esaltando quella logica-illogica che ci porta a comprendere la totalità delle cose (dice Yoda in “Star Wars: Episodio II – L'attacco dei cloni”: “Meravigliosa la mente di bambino è”). Il film si conclude con la memorabile domanda della piccola, che sembra condensarne tutto lo spirito: “Mamma, quando sarò un gatto, potrò mangiare i croccantini?” - su questo scorrono i titoli di coda.

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