Si potrebbe cominciare con una banale questione di etichetta (non nel senso di buone maniere). La copertina italiana, in giro anche su internet, del romanzo Gli anagrammi di Varsavia (Piemme 2012, trad.: M. Crepax), riporta una lapidaria definizione attribuita a non ben identificati critici di area anglosassone: “Richard Zimler è l’Umberto Eco americano”. Le bandelle servono a strizzare l’occhio agli avventori frettolosi in libreria, ma la critica letteraria, anche quella veloce, giornalistica, blogger (“militante”, si diceva un tempo) dovrebbe essere un’altra cosa, sebbene l’obiettivo certe volte sia lo stesso: far emergere un titolo, un nome dal mare magnum (e non sempre nostrum) delle pubblicazioni di routine. E non è detto che una fascetta del genere renda un buon servizio a Zimler. Quando un italiano legge un accostamento così non può non pensare all’Anna Magnani svizzera di Roberto Benigni.
“Scrittore portoghese di lingua inglese” è invece un’altra definizione che, in un’intervista radiofonica, stavolta lo stesso autore ha dato di sé qualche tempo fa. Mi torna utile per giustificare questa escursione in un ambito linguistico diverso dal consueto, visto che normalmente mi occupo di autori che scrivono in portoghese. Il fatto è che in Portogallo il newyorkese Zimler ci vive da oltre vent’anni, e probabilmente il paesaggio che ti circonda ogni mattina al risveglio entra in qualche modo in ciò che scrivi, anche se racconti storie ambientate su Marte. Zimler, in particolare, oltre ad aver ambientato molte delle sue storie in Portogallo, come romanziere è nato proprio da questa parte dell’Atlantico. Il suo giallo storico Il cabalista di Lisbona gli editori americani lo rispedirono per anni al mittente con tanti complimenti. Tradotto poi in 22 lingue (in Italia uscì da Mondadori nel 1997, oggi è fuori catalogo ed è un peccato), quel libro diede i primi vagiti in traduzione portoghese. La storia prendeva spunto da un fatto accaduto proprio a Lisbona: il pogrom del 1506 (oggi ricordato anche da un monumento in una delle piazze più belle e multietniche d’Europa: il Rossio), nove anni dopo la conversione forzata degli ebrei nel regno di Emanuele I, che così si allineava alla folle politica del re di Spagna.
Il filo rosso che lega gran parte dei libri di Zimler è proprio l’identità ebraica letta come manifesto contro l’intolleranza, confluenza di tradizioni culturali comuni e comunione nelle disgrazie che di quell’intolleranza sono il frutto avvelenato (agli editori italiani suggeriamo il bellissimo The Search for Sana, romanzo che, sulle tracce di una donna palestinese, intreccia una detection emozionale che attraversa mezzo mondo, dal World Trade Center alle “Twin Towers” di Bologna). Nel frattempo Zimler è tornato sul mercato librario italiano con una storia ambientata a Oporto all’epoca delle guerre napoleoniche (Mezzanotte, ovvero il principio del mondo, Cavallo di Ferro 2006), affetti minacciati dall’AIDS (Il sognatore di fantasmi, Playground 2007) e, da pochi mesi, con Gli anagrammi di Varsavia, appunto. La scommessa, nel caso di quest’ultimo libro, era probabilmente tra le più difficili: raccontare, servendosi dei consueti strumenti della narrativa di genere, piccoli orrendi crimini nel bel mezzo della più grande follia criminale di sempre. Siamo infatti nel ghetto di Varsavia, in piena guerra e in pieno Olocausto, e il vecchio psichiatra ebreo Erik Cohen cerca di spiegarsi il perché della scomparsa di suo nipote e di altri bambini. Un perché logicamente assurdo in un luogo e in un tempo in cui sopravvivere è già frutto del caso o della colpa.
L’atout di Zimler consiste nella sua capacità di costruire trame complesse e avvincenti, per quei lettori che amano farsi “mozzare il fiato”, abbinata a una scrittura mai corriva, che sa toccare svariati registri (“svariava” – facciamola alla Bartezzaghi, non a caso primo recensore di questo romanzo – è anagramma di Varsavia), dal sentimentale al fantastico (nel senso todoroviano del termine), con un occhio per l’infanzia che qualcuno potrebbe dire dickensiano, altri spielberghiano; e poi ambienti e personaggi che cercano lettori attenti e rifiutano il destino di mere funzioni narratologiche per divoratori d’intrecci. Perché il rischio, si è capito, è che finisca negli scaffali della subletteratura alimentare. Ma all’estero son cose che capitano anche a scrittori come Umberto Eco.
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