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Di Baru avevo letto qualche tempo fa Pompa i bassi, Bruno!, albo che mi era piaciuto pur essendo uno dei miei primissimi incontri con il mondo del fumetto e la specificità di lettura che esso implica. Un tempo si diceva che chi non amava leggere guardava le figure. Ebbene il fumetto realizza una specie di ossimoro (magistralmente utilizzato nel titolo di un blog dedicato a quest’arte), ossia la possibilità e la necessità di “leggere le figure”, perché il fumetto va guardato, osservato, interpretato, sciolto nella narrazione attraverso un processo mentale che gli è del tutto proprio.
Baru, in particolare, si caratterizza per uno stile narrativo che personalmente definirei “sincopato”, che è qualcosa di più di sintetico, perché procede per distensioni e compressioni del ritmo narrativo.
La lettura dei suoi albi non è dunque affatto una lettura semplice, perché richiede attenzione, direi quasi amorevolezza nei confronti dei personaggi e della storia.
Ne Gli anni dello Sputnik questo stile trova secondo me la sua massima espressione, grazie a un racconto che attinge ai ricordi dell’autore e che dunque si nutre al contempo della tenerezza dello sguardo sul passato e della commistione tra realtà e fantasia che è propria dell’infanzia o - forse meglio - dei ricordi d'infanzia.
Siamo nella Francia degli anni ’50 in piena guerra fredda. Un paese di una regione siderurgica in cui gli abitanti si dividono tra quelli che lavorano in miniera e quelli che lavorano nelle fabbriche. La composizione etnica è estremamente diversificata, dagli italiani ai polacchi, dagli algerini agli ucraini, tutti faticosamente inseriti nel conflitto politico e nella lotta di classe.
Ma il focus del racconto non sono gli adulti, bensì i ragazzini e i ragazzi della scuola, quelli che nel mondo del lavoro ancora non ci sono entrati. Divisi in bande tra cui si svolge uno scontro costante e una competizione continua, ma anche caratterizzati al loro interno da meccanismi di competizione e cooperazione che si alternano repentinamente come solo tra i ragazzini può accadere. Per certi versi mi ha ricordato le guerre tra ragazzini che Amélie Nothomb racconta nel bellissimo Sabotaggio d’amore.
Qui il protagonista è Igor, chiamato da molti “Goretto” (che vuol dire maiale), il quale sogna di diventare il nuovo capo della banda dei piccoli e lo fa dimostrando di essere il migliore nelle interminabili partite di calcio, nel costruire un modello di missile che vola per davvero, nel tirare meglio con l’arco e nel convincere gli altri di non avere paura di nulla. Intorno a lui un mondo variopinto e colorato, in cui spicca Leila, la bambina figlia di algerini che vuole sempre giocare con i maschi e che popola tutti i sogni di Goretto.
La narrazione si articola in episodi all’interno però di un percorso di continuità, inframmezzato da flashback e da spiegazioni in cui Igor si rivolge direttamente al lettore.
La capacità di Baru di raccontare la difficoltà e la bellezza di essere bambini, mentre sullo sfondo il mondo dei grandi combatte un’altra battaglia altrettanto inutile e fallimentare, illumina le pagine di questo albo e gli occhi di chi legge.
Il gusto un po’ retrò di un mondo che non c’è più e che pur nella sua assurdità aveva una schiettezza e una semplicità forse in parte perduti, e dall’altro lato la ricorsività delle dinamiche umane che a distanza di tempo ripropone fenomeni simili rendono Gli anni dello Sputnik un’opera equilibrata, divertita e commossa allo stesso tempo, in cui il "come eravamo" funziona per tutti, attraversando intatto il tempo e lo spazio.
Voto: 4/5
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