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L’eccezionalità
della storia di Medea è racchiusa tutta nella sua coerenza. Se andiamo un
attimo a rivedere le sue azioni, ci accorgiamo che fra loro non vi è alcuna patente contraddizione: tutte quante sono state dettate dal desiderio sincero di aiutare il suo compagno a recuperare il trono, senza badare troppo ai mezzi necessari. Questo continuo ‘andare oltre’ le normali regole di
convivenza affettiva e sociale ha fatto sì che si creasse una frattura troppo
forte tra loro stessi e il mondo, frattura che Giasone a un certo punto ha
cercato in qualche modo di superare allontanando proprio colei che ne era stata la causa
maggiore. Facendo piazza pulita di tutti gli ostacoli che si frapponevano al
loro amore, la donna in realtà aveva sacrificato anche quello. Quando perciò le
venne chiesto di farsi da parte, di rinunciare a ciò che aveva così
faticosamente contribuito a costruire, la reazione della donna fu terribile. Ma non si trattava soltanto
di gelosia: era il suo ruolo subordinato di donna che Medea in realtà rinnegava. Non
aveva nessun’arma per colpire Giasone se non quella di
privarlo del suo dono più specifico di donna e poi di moglie, ovvero uccidere i
suoi stessi figli. Lei stessa ne avrebbe sofferto chiaramente più di tutti, ma questo non le importava: ciò che contava veramente era soltanto la vendetta, la più atroce,
la più tragica delle vendette.
Non appena ebbe
indossato la veste, la giovane Glauce iniziò a bruciare. Non era infatti una
semplice veste, era una veste incantata: il suo fuoco era il fuoco del dio Sole,
inestinguibile e letale. Inutilmente la povera Glauce tentò di gettarsi in una
fontana che si trovava nel cortile della sua reggia: anche l’acqua infatti
cominciò a bruciare, evaporando in un secondo. Sopraggiunse allora il padre,
il vecchio sovrano Creonte, che nel tentativo di aiutarla morì bruciato insieme a lei. Il
suo palazzo fu ridotto in cenere, e il solo Giasone riuscì a salvarsi
gettandosi all'ultimo momento da una finestra. Ma la salvezza per lui fu anche peggiore
della morte. Non appena fu rientrato a palazzo, trovò i cadaveri dei suoi due
bambini, mentre Medea li ripuliva dal sangue e li rivestiva con abiti
nuovi. La reazione di Giasone la
possiamo facilmente immaginare, ma fu quella di Medea che fu davvero sorprendente. Rinfacciando
al suo vecchio sposo tutti i suoi torti, negandogli il diritto alla sepoltura dei figli,
inveendo con tanta ferocia contro di lui in realtà la donna dimostrava apertamente la lucidità estrema del suo gesto, il desiderio oggettivo del male. Ma in tutto questo, lo ripeto un'altra volta, è
rintracciabile perfettamente la sua coerenza di fondo, il suo coraggio - se così possiamo dire - di compiere i gesti anche i più estremi che le avessero
permesso ottenere ciò che si era inizialmente prefissa, o all'occasione di distruggerlo. Ma i gesti estremi di Medea - chi potrà dirlo? - furono forse dettati più che altro dall'impossibilità stessa di agire che la contraddistingueva in quanto donna, e in quanto donna del suo tempo. Se le vie cosiddette 'normali' dell'azione non le fossero state impedite; se avesse potuto scegliere serenamente tra più opzioni - come gli uomini -, crediamo davvero che si sarebbe comportata ugualmente? Forse sarebbe stata persino una grande regina.
Nell’attimo stesso in
cui Giasone le si stava scagliando addosso, all’improvviso comparve il carro alato
del Sole: Medea riuscì a saltarvi dentro portando con sé anche i cadaveri dei due suoi figli, che in questo modo non poterono mai più ricevere l’ultimo abbraccio del padre.
La storia degli Argonauti finisce dunque così, col fallimento sostanziale di
Giasone e la scomparsa di Medea. In verità ci sono versioni più tarde che la
fanno continuare ancora un po’, ma sono tutti episodi già visti e rivisti che
non hanno più il mordente della storia principale. Nel palazzo silenzioso di
Giasone e di Medea, nel Vello d’oro che oscilla appeso a un'asse accanto al trono, nella
nave Argo tirata in secco e abbandonata su una spiaggia non lontano dalla città di Iolco è simboleggiata invece, con estrema chiarezza, l’inutilità di molte delle azioni umane.