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Sirene e giganti: la scaltrezza di Medea Tutto a posto, dunque? Ma neanche per sogno! Durante il viaggio di ritorno, gli Argonauti incapparono in un’onda così alta, ma così alta che si ritrovarono scaraventati nel bel mezzo del deserto della Libia! E così, ancora increduli e sconvolti, i nostri eroi dovettero trascinare la nave attraverso il deserto su dei rulli di legno, prima di rimettersi in mare. Una volta reimbarcati, però, le cose non andarono meglio. Incontrarono le Sirene, ma Orfeo con il suo canto riuscì a mantenere indenne l’equipaggio. Più complicata fu la faccenda di Talo, il gigante di bronzo che custodiva l’isola di Creta. Questo gigante spaventoso era stato costruito da Efesto. Per semplificare le cose, il dio del fuoco lo aveva dotato di un’unica vena che dal tallone gli arrivava fino al collo. Ora, questo gigante aveva l’incarico, tutte le notti, di compiere tre volte il giro dell’isola per controllare che non ci fosse qualche nave di invasori, e in tal caso avrebbe dovuto affondarle con un gran lancio di massi - massi enormi, chiaramente! Gli Argonauti, diciamolo subito, non erano molto allettati dall’idea di fermarsi sull’isola, anche se le scorte stavano finendo ed erano tutti un po’ stanchi per il viaggio che sembrava non dovesse mai finire. Stavano quasi per rinunciare, quando Medea si fece avanti promettendo a tutti la sconfitta del gigante. Come?
Sbarcata nascostamente sull’isola, in piena notte, Medea si avvicinò al gigante senza farsi vedere. Questi aveva giusto finito l’ultimo giro di ispezione e stava già per andarsene a dormire, quando sentì una voce dolcissima che lo chiamava. “Talo…”, chiamava la voce. “Chi è che mi sta chiamando?”, rispose il gigante, e la sua voce metallica era molto simile al suono di un’enorme campana. “Talo…”, ripeté la voce. Era molto buio e non si riusciva a vedere quasi niente. “Chi sei?”, tuonò lui, nuovamente. “Sono Medea, e mi piacerebbe vederti un po’ meglio”. “Vedermi un po’ meglio? E perché?”, domandò lui, con diffidenza; ma si vedeva che oramai c’era cascato. “Vieni”, gli disse Medea, con una voce ammiccante. “Mettiamoci più in là, sotto la luce della luna, così che tutti e due possiamo vederci tranquillamente”.
Il gigante si diresse a grandi passi verso uno spiazzo inondato di luna. Medea lo aveva preceduto, e lo attendeva in tutta la sua bellezza. Quando il gigante la vide, lasciò cadere ogni sospetto. Si sedette con un tonfo, e se ne stettero a chiacchierare. Ora, non ci fu nessuno ad assistere alla scena, eccetto ovviamente la stessa Medea, pertanto le fonti non sono sicure. A sentire Medea, le cose andarono più o meno così. Dopo avergli offerto un potente sonnifero, la maga era rimasta ad aspettare che facesse effetto - e trattandosi di un gigante, era normale che ci impiegasse un po’. All’improvviso, però, senza alcun preavviso il mostro cadde all’indietro con tutto il suo peso: la terra si mise a tremare e persino gli Argonauti, ancora a bordo della nave, dovettero mettercela tutta per resistere alle ondate che giungevano da riva. Dopo che quindi si fu addormentato, Medea non dovette fare altro che svitargli il grande tappo sul tallone, il tappo che chiudeva per l’appunto l’unica vena che aveva in dotazione. In pochi istanti, ovviamente, il gigante morì dissanguato, e gli Argonauti poterono sbarcare liberamente sull’isola e brindare alla scaltrezza di Medea. Una donna, come si accorse Giasone che la fissava da dietro al bicchiere, dotata di non meno intelligenza che bellezza. E già si auspicava una vita felice e tranquilla.
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