Questa, almeno, dovrebbe essere la dizione sulla base dei nostri principi, ma gli eventi si prestano a diverse interpretazioni, interpretazioni che variano secondo la realpolitik declinata nello Studio Ovale. La stampa americana si divide così sulla linea internazionale adottata dall’amministrazione Obama. Non mancano le voci critiche: il New York Times ed il Washington Post, espressioni di un pensiero liberal molto vicino alla forma mentis democratica, hanno frontalmente attaccato la Casa Bianca sul piano dell’emergenza umanitaria, chiedendo ad Obama di “chiarire la sua inequivocabile opposizione alla condotta dei militari egiziani” per evitare di essere ulteriormente “complice nella nuova orribile e sanguinosa repressione”. Ma il presidente americano è chiuso nell’angolo, costretto all’impasse, obbligato dagli equilibri regionali a foraggiare un alleato che sta mostrando al mondo la sua espressione più brutale. Per giunta in compagnia di partner poco raccomandabili come i sauditi. Riassume Panebianco:
“Morsi era un presidente democraticamente eletto ma, data la natura illiberale del suo movimento, egli doveva essere tallonato, blandito con le carote e minacciato col bastone. Per la situazione del Sinai e per i rischi che correvano le libertà degli egiziani. L’America avrebbe dovuto esercitare forti pressioni per spingere Morsi, come chiedeva l’esercito prima del golpe, ad aprire le porte del governo alle altre componenti della società. Ha invece scelto di appoggiarlo e basta. Col risultato di essere oggi invisa a tutti gli egiziani, laici e fondamentalisti. Un’efficace politica estera è una equilibrata miscela di principi e convenienze. Obama ha snobbato i principi e ha perso anche sul piano delle convenienze”.La cattura di Mohammed Badie, leader settantenne della Fratellanza, rappresenta la cartina di tornasole della ferma volontà dell’Esercito: annientare una volta per tutte la piaga dell’islam politico, chiudere i conti con il connubio fra fede e impegno civile. Ma cosa si cela dietro questo spauracchio che noi stessi, italiani ed europei, temiamo fortemente? Davvero Allah è una presenza ingombrante nelle vie del Cairo? Come scrive Gian Paolo Calchi Novati sul Manifesto, “Non è all’islam che va attribuita la responsabilità della crisi della democrazia in Egitto ma semmai ai vizi di un ordine che sembra condannare le forze armate a riempire con le buone o con le cattive tutti gli spazi invece di favorire doverosamente la pluralità”. E’ nelle fisiologiche ingerenze dell’Esercito che risiede il germe della vera anomalia, non nella declinazione ideologica di un collante sociale qual è quello spirituale. Con le debite proporzioni, anche in Italia abbiamo avuto per anni la Democrazia Cristiana, una realtà che almeno sul piano concettuale mischiava parecchio fede e politica, senza contare il supporto strategico delle gerarchie vaticane. Certo, nel mondo arabo il discorso è più complesso, la matrice identitaria spesso mal si concilia con le regole di convivenza tipiche di una società plurale, però in democrazia è il popolo ad essere sovrano e tale sovranità non dovrebbe subire limiti di sorta. Nel momento in cui una democrazia può essere commissariata, essa cessa di essere una democrazia e si trasforma in qualcosa di profondamente differente.La scarcerazione di Mubarak assume così “l’inedito senso di un ritorno al passato”. Un revival gravido di conseguenze. I Fratelli Mussulmani non sono riusciti a modificare il paese tramite vie costituzionali e vedono oggi il proprio ruolo conteso dalle frange salafite: per quale motivo le cellule che resteranno in vita dopo la prevedibile campagna di epurazione dovrebbero ripudiare il ricorso alle armi e alla barbara violenza? L’impressione è che il bagno di sangue sia soltanto all’inizio.
G.L.