Gli ignoranti – Vino e libri: diario di una reciproca educazione, di Étienne Davodeau, Porthos, 2015, pp. 287, euro 25,00.
_____________________________
di Andrea B. Nardi
.
Deve essere bello saper disegnare. E deve essere bello possedere una vigna. Ve lo dice uno che non riesce a tirare una linea dritta nemmeno col righello, e che col vino ha un rapporto conflittuale (sono più tipo da birra, e da cocktail Martini). Étienne Davodeau e Richard Leroy sono due amici, il primo è un disegnatore famoso per i suoi reportage a fumetti, l’altro un produttore di vini naturali, entrambi raggiunti, nel proprio ambiente, da quella fama meno ossessionata dal denaro che dall’ottima esecuzione del lavoro, il che, spesso, è il primo presupposto dell’arte.
Totalmente ignoranti uno del mestiere dell’altro, su impulso di Davodeau i due vivono assieme un anno per imparare i reciproci mondi, e l’esperienza verrà seguita in tempo reale, strip dopo strip, fino a completare una graphic-novel: questa, appunto. Pubblicata dapprima in Francia e ora anche in Italia e in altri paesi. Assistiamo, così, a un’osmosi dei piani di realtà e rappresentazione, dove il protagonista disegna sé stesso disegnante mentre, sporco di terra e letame, tratteggia bozze delle vignette durante le pause dalla fatica nei vigneti. La stessa contiguità lessicale fra vigne e vignette pare di buon auspicio per conoscere e apprezzare piano piano stili di vita apparentemente tanto diversi, l’autore di graphic-novel impegnate e il produttore di vini biodinamici.
Il primo si immergerà nei tempi lenti della campagna di Montbenault, ma assaporando anche quella salmastra e cruda della Corsica e di altre ancora; il secondo verrà trascinato fra tipografie e redazioni in Belgio e a Parigi. Quello si troverà i calli sulle mani, questi si addormenterà sforzandosi di leggere fumetti di autori a lui ignoti. La vicendevole educazione porterà alla luce un modo di vivere il proprio mestiere non dissimile da quello dell’altro, dove l’obiettivo consiste nella serietà di quanto cercato, nell’onestà di quanto proposto, nella cura ossessiva di come ottenerlo. Che si tratti sia di storie raccontate attraverso l’estetica del tratto, sia di bottiglie imbevute del gusto per sapori quanto più possibile antichi e naturali. Ne emerge una filosofia professionale oltrepassante la pura competenza, per lambire una certa etica di vita – al di là dei dannati mercati, dei profitti, delle superficialità globali, delle volgarità fieristiche –, e sicuramente una precisa espressione d’arte.
Il disegno di Davodeau è avvincente: naturale ma ironico pur senza sdrucciolare nel caricaturale, sui personaggi, alterna nelle ambientazioni momenti di estrema sintesi che non sono minimalismi bensì focalizzazioni del punto in questione. Alcune scene sembrano scarne, scompaiono i dettagli e le scenografie, rimane solo il concetto, importante, perfettamente interpretato da poche battute o addirittura da un silenzio dei protagonisti. Poi, però, quando occorre, riappare in tutta la sua ricchezza il paesaggio, palpitante di terra cielo e piante, e le inquadrature di interni caldi e vitali.
È una bella lettura, questa graphic, intelligente e appassionante, ti fa sentire tutti gli odori degli inchiostri e i profumi delle cantine, invidi le degustazioni di Richard e le tavole di Étienne e dei suoi colleghi. Un eccellente viatico per godere dall’interno le atmosfere di chi produce vino e di chi produce fumetti. E soprattutto capire che a questo mondo ci sono ancora artisti sinceri e sensibili verso la propria opera.
Detto questo, permettetemi una breve digressione sui temi di questo bel libro. Io non sopporto le mitizzazioni. Specie quando, per esaltare una cosa insulsa, si finisce per dimenticare il senso di un’altra invece seria. Allora, abbiate pazienza, ma a me fanno ridere gli esperti di vino. E mi fanno arrabbiare i sacerdoti dell’editoria. Certe liturgie compunte nell’assaggio, certe acrobazie lessicali nell’esegesi del sapore, certi proclami sulla asserita cultura del vino, sono enormi idiozie. Non c’è nulla di metafisico e intellettuale nel vino, bere vino non ha nulla di culturale. La cultura è pensiero, elaborazione di concetti: bere è solo una stimolazione del gusto. Il vino è soltanto una bevanda, gradevole in certe occasioni, assolutamente vomitevole in altre, come tutte le bevande: in certi momenti è piacevole bere vino, in altri invece latte, acqua, o Coca-Cola: se invertite i momenti, il risultato diventa terribile.
Idem per l’editoria: ormai la cultura è un concetto che poco ha a che fare con l’editoria. Lo sappiamo tutti che il 90% dei titoli di narrativa negli scaffali dei librai – e, ahimè, dei supermercati – sono solenne spazzatura. E sappiamo tutti che nelle redazioni degli editori, specie delle majors, l’ignoranza regna ormai sovrana: non solo non si considera più lo stile e l’eleganza di una gabbia, ma nemmeno si conosce più la grammatica, per non parlare delle scelte editoriali, pari ai palinsesti dei programmi televisivi.
In questa rubrica cerchiamo di allontanarci dalle mitizzazioni esattamente per proporre esempi di opere ancora con un proprio valore culturale. E per mantenere a questa parola, cultura, ancora un senso.
_____________________________
[Leggi tutti gli articoli di Andrea B. Nardi pubblicati su Retroguardia 2.0]
_____________________________
Nome(necessario) E-mail(necessario) Sito web Commento(necessario)