Anna Lombroso per il Simplicissimus
Facciamo finta.. facciamo finta che siano tutti in buona fede: Passera che vuole capirne le implicazioni, Fassino che dice che ne vuole sapere di più prima di pronunciarsi. La Fornero che aspetta una telefonata col disappunto risentito della fidanzatina tradita. Marchionne stupito di essere stato preso sul serio: ma come non avevano capito che era una patacca? Gli opinionisti che si erano prestati agli spot trasmettendoli a ripetizione, che si sa la crescita è fatta della stessa materia di cui sono fatti i sogni. Tutti quelli che hanno preferito non vedere, credere alle fanfaronate del piazzista di liquori con le bottiglie piene di acqua colorata, il contrabbandiere che ti vende il televisore e quando lo porti a casa è uno scatolo vuoto.
Ma in attesa, come auspica il Simplicissimus, del pubblico auspicabile autodafè, vale la pena di guardare dietro a tutto questo teatrino, dietro al disvelamento del miserabile inganno, perché là si è consumato qualcosa di terribile, un lutto del quale Fabbrica Italia è il caso paradigmatico, l’allegoria macabra. Ed è la morte prima che delle produzioni, delle esportazioni, della competitività del lavoro nel senso in cui fu inteso nel Novecento, chiamato appunto il secolo del lavoro, dei suoi luoghi e dei suoi uomini, fulcro del sistema dei diritti e di istituzioni, che hanno dettato le parole e tracciato il cammino del nostro modello costituzionale e democratico.
Pensavamo di esserci lasciati alle spalle con il secolo breve anche il peggio della nostra storia e di un ipotetico futuro, l’oppressione dei totalitarismi, la rigidità meccanicistica del fordismo, l’astrattezza algida delle ideologie e gli esiti distruttivi delle loro contrapposizioni. Pensavamo, e forse per quello alcuni si sono fatti ingannare, che si affacciasse un’epoca opulenta di abbondanza e di diritti e di garanzie e di libertà.
Sinistre mondiali ripiegate dolcemente su conquiste fatte da altri, socialdemocrazie convinte che bastasse temperare con un po’ di Mozart le marce imperiali del capitalismo, pragmatici convinti che non essendoci alternativa al mercato era meglio consegnarsi e godere quel po’ di benessere che cascava giù come una polverina magica, hanno reso possibile la sconfitta del lavoro. Già un paio di anni fa la Banca dei regolamenti internazionali pubblicò un’indagine nella quale si evidenziava come nell’ultimo quarto di secolo scorso una quota rilevante di ricchezza prodotta nei principali paesi industriali fosse stata “trasferita” in misura sempre crescente dai salari ai profitti, dal lavoro cioè al capitale.
È un processo che non può essersi prodotto in modo indolore: se i rapporti di forza tra capitale e lavoro fossero ancora quelli di venti anni fa quello spostamento che la ricerca calcola in circa 8 punti medi di Pil, sarebbe ancora nelle tasche dei lavoratori, invece che dei padroni. Ma quello che ha segnato davvero l’inizio del declino è che da quelle tasche i soldi non sono usciti, per via di quello che è stato chiamato lo “sciopero del capitale”, che ha tirato i cordoni della borsa degli investimenti, che ha dismesso ricerca e applicazione tecnologica, che si è svenduto le potenzialità che possedeva sul piano internazionale. La Fiat è davvero esemplare: certo che la crisi ha ridotto le vendite di auto in Europa di oltre un quarto, rispetto ai 16,8 milioni di vetture del 2007. Ma questo non spiega perché l’Italia, che ha nel gruppo Fiat l’unico produttore di autoveicoli, sia ormai soltanto il settimo produttore europeo, dopo essere stata a lungo il secondo o il terzo. Come segnala Luciano Gallino nel 2011, quella che fu una grande potenza automobilistica ha prodotto meno di 0,8 milioni di autoveicoli (vetture più veicoli commerciali leggeri). La sola Polonia ha superato di parecchio tale cifra. Poi ci sono, a crescere, la Repubblica Ceca, con 1,2 milioni di unità; il Regno Unito (1,5 milioni); la Francia (2,3); la Spagna (2,4); infine la Germania, con 6,3 milioni in totale. Per questi Paesi sembra che la crisi sia un’altra cosa. E del pari inconsistenti sono le altre affermazioni per cui in Italia non conviene produrre auto. Nello stesso settore, i salari lordi dei lavoratori dell’auto sono più alti in Francia, e più alti ancora lo sono nel Regno Unito e in Germania. Quanto alla produttività, basta accostare i dati in modo appropriato. Evitando – ad esempio – di comparare stabilimenti esteri dove si lavora sei giorni la settimana tutti i mesi, tipo quello polacco di Tichy, con Mirafiori, dove da anni si lavora qualche giorno al mese. Si scopre così che la produttività per ora effettivamente lavorata in Italia è analoga a quella di molti impianti stranieri.
La verità è che i grandi azionisti delle grandi aziende mostrano, oltre che a una perniciosa inadeguatezza pari all’incompetenza dei loro manager, e non con quello che dicono, ma con le scelte che compiono, di considerare l’industria come un intralcio alla loro ricerca di maggiori rendimenti per i capitali di cui dispongono. Lo scopo dell’impresa diventa esclusivamente l’interesse dell’azionista, così che si scelgano manager che puntano a massimizzare i profitti, e ricevono compensi astronomici non tanto perché creano innovazione, ricchezza, lavoro, ma perché creano valore per gli azionisti. E i loro insaziabili appetiti si rivolgono a altre forme più comode di creazione del denaro, magari con quelle “espansioni dei depositi” come le chiama pudicamente il sistema bancario, con i giochi di prestigio e d’azzardo della finanza creativa, permessi solo a chi i quattrini li ha magari solo virtualmente, per gonfiare la gigantesca bolla mondiale del credito.
L’evaporazione del progetto di Fabbrica Italia, la chiusura del Carbosulcis, altrettanto simbolica nell’evocazione di una delle più drammatiche sconfitte del movimento sindacale britannico, hanno una finalità dimostrativa, imporre la logica del ricatto per ridurre alla totale sottomissione i lavoratori: un processo che è cominciato con il nefando referendum imposto dalla Fiat, proseguito con l’Alcoa e che investirà altre fabbriche, per non dare tregua, che se qualcuno resiste conferma l’inevitabilità, l’inesorabilità della delocalizzazione, in attesa che la disperazione renda i dipendenti italiani disposti alla schiavitù.
È un’opera instancabile e logorante che passa anche attraverso lo spossessamento dei luoghi, la dismissione, lo svuotamento dei capannoni. Dagli anni Novanta, quando il lavoro si è spostato fuori dalla fabbrica per diventare sempre più immateriale e precario, i territori operai sono diventati posti della memoria, piazzali arrugginiti, magazzini popolati dai sorci, discariche di rottami, nei quali si dimentica la fatica ma anche le conquiste per essere predati dalle speculazioni immobiliari.
Cambiano le geografie, cambiano le città, da luoghi della produzione a spazio per le “rendite” e il consumo – se c’è ancora –, mobili, astratti e effimeri come il capitale finanziario, set crudeli di un mondo sempre più disumano, dove c’è sempre meno futuro per la libertà.
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