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Gli indifferenti – Alberto Moravia (estratto)

Creato il 09 maggio 2012 da Maxscorda @MaxScorda

9 maggio 2012 Lascia un commento

Nessun servitore dormiva in casa di Lisa, ella non ne voleva, e per le faccende indispensabili come la cucina e la pulizia faceva venire una donnetta alacre, la portiera della casa; questo sistema, certo, non andava senza incomodità, ma Lisa che aveva una vita molto libera anzi sregolata preferiva che fosse così.
Quella mattina ella si destò tardi; era qualche tempo che rincasava dopo mezzanotte, dormiva senza piacere e si levava quasi più stanca e nervosa del giorno avanti; si svegliò con difficoltà e senza muoversi né alzar la testa, guardò: una rada e polverosa oscurità forata come un setaccio da mille fili di luce empiva la stanza; in quest’ombra s’indovinavano, muti e morti, i vecchi mobili, gli specchi silenziosi, i panni appesi, a quella macchia oscura, la porta; l’aria era greve e dell’odore del sonno e di quello delle suppellettili; la finestra era chiusa.
Lisa scese dal letto e ravviandosi i capelli che le pendevano sopra la faccia madida andò alla finestra e tirò su l’imposta; un giorno bianco invase la stanza; ella allargò la tendina; i vetri erano tutti imperlati di vapore, doveva far freddo; attraverso questa rugiada s’indovinavano dei colori vaghi, tenui e puri, un bianco, un verde come dissolti in un lago d’acqua; ella squarciò con la mano questo velo liquido e vide subito un pezzo di tetto rossiccio di un aspetto così poco luminoso, così indifferente e opaco che non ebbe bisogno di guardar più in su per vedere se il cielo era grigio; si distaccò, fece macchinalmente qualche passo per la stanza ingombra.
Il gran letto matrimoniale di noce cupo e volgare, tutto pieno di bianche lenzuola disfatte occupava molto posto, ed era così vicino alla finestra rettangolare che qualche volta nelle notti d’inverno le era di gran godimento mentre giaceva sotto le coperte calde, vedere là, a un metro di distanza, l’onda della pioggia colare dalla vasta notte torrenziale sui vetri quadrati; oltre il letto c’erano due grandi armadi dello stesso legno casalingo e maleodorante con immensi specchi ingialliti; la stanza era di media grandezza ma con quei mobili il posto che avanzava per muoversi era addirittura esiguo.
Andò all’attaccapanni; non aveva addosso che una trasparente camiciuola che faceva ancor più corte le sporgenze del corpo, le gambe erano tutte scoperte fino alla piega profonda che staccava la rotondità delle natiche dalle cosce bianche e senza peli, i seni muscolosi, appena più bassi che a vent’anni, ne uscivano per metà con due rigonfi lisci e venati; ella si vide in uno specchio così seminuda e molto piegata in avanti come per nascondere sotto quel velo troppo corto la macchia oscura del grembo, e giudicò di essere dimagrita; infilò una vestaglia e passò nel bagno.

Questo era una stanzetta grigia, nuda, fredda, i tubi erano verniciati e opachi, la vasca era di metallo smaltato, non c’era che un solo specchio tutto rugginoso, un’ombra umida empiva gli angoli; Lisa accese la luce; le venne in mente che erano passati tre giorni da quando si era lavata per l’ultima volta tutto il corpo, e che sarebbe stato necessario prendere un bagno; esitò; era veramente indispensabile?
Si guardò i piedi: le unghie erano bianche, parevano puliti; no, non ce n’era bisogno, tanto più che se, come era probabile, passava la notte con Michele, avrebbe dovuto ripulirsi interamente il giorno dopo; si decise, andò ad un lavabo inchiodato al muro, aprì i rubinetti, aspettò che si fosse riempito; allora si tolse la vestaglia, abbassò la camicia fino alla cintola e si lavò; prima la faccia, starnutendo e soffiando, poi con gesti che avrebbero voluto impedire che l’acqua colasse dal petto e dalle spalle sulle parti inferiori ancora tutte piene del tepore notturno, il collo e le ascelle; ogni volta che si chinava sentiva la camicia risalire sul dorso, un freddo di pietre le veniva dalle mattonelle del pavimento: all’ultimo non trovò l’asciugamano e scappò tutta accecata tutta bagnata e nuda a prenderne uno nella stanza da letto.
Si asciugò, sedette alla teletta; breve acconciatura; ella non usava pomate, né belletti, non c’era che da mettersi un po’ di cipria, da profumarsi e da pettinarsi: voltò alfine le spalle allo specchio, e si chinò per infilare le calze: ora due pensieri s’alternavano nella sua mente, quello della colazione e quello di Michele; le piaceva la mattina mangiare col caffè delle buone cose, delle conserve dolci, dei pasticcini, del burro, dei croccanti; era ghiotta e non si staccava dalla tavola se non quando era sazia; ma oggi temeva di restare a digiuno. "Se Michele viene tra poco" pensò "è meglio che non mi faccia trovare a mangiare… pazienza… sarà per un’altra volta".
Si drizzò, indossò una combinazione rosa, poi una sottoveste dal busto strettissimo che le fasciava il petto come un corsetto; la sua fantasia, per consolarsi, dipingeva un Michele innamoratissimo e timido, un adolescente inesperto a cui ella si sarebbe data tremante di gioia; alfine un amore puro: "Dopo la vita che ho fatto" pensò convinta, "fa bene un po’ d’innocenza".
Notti insonni, faticosi piaceri, eccitamenti senza gioia; questa sudicia nebbia dileguava.
Michele le portava il sole, il cielo azzurro, la franchezza, l’entusiasmo, l’avrebbe rispettata come una dea, avrebbe appoggiato la testa sulle sue ginocchia; ne aveva un desiderio insaziabile, e non vedeva l’ora di bere a questa fontana di giovinezza, di tornare a quest’amore nuovo, balbettante, pudico che da vent’anni quasi aveva dimenticato; Michele era la purezza: ella si sarebbe data al ragazzo senza lussuria, quasi senza ardore; tutta nuda gli sarebbe venuta incontro a passi di danza, e gli avrebbe detto: "Prendimi"; sarebbe stato un amore straordinario, come non si usano più.
Aveva finito di vestirsi; uscì dalla stanza, attraversò il corridoio oscuro, entrò nel boudoir pieno di luce; era, questa stanza, tutta bianca e rosa; bianchi i mobili e il soffitto, rosei i tappeti, la tappezzeria, il divano; tre grandi finestre leggiadramente velate diffondevano una luce tranquilla; a prima vista tutto appariva puro e innocente, si osservavano mille gentilezze, qui un cestino da ricamo, là una piccola biblioteca dai libri multicolori, e poi dei fiori smilzi sulle mensole laccate, degli acquerelli sotto vetro alle pareti, insomma una quantità di cose che, dapprima, facevano pensare: "Eh, che bel posticino chiaro e sereno, qui non può abitare che qualche giovinetta"; ma se si guardava meglio si cambiava idea; allora ci si accorgeva che il boudoir non era più giovane del resto dell’appartamento, si osservava che la lacca dei mobili era scrostata e ingiallita, che la tappezzeria era scolorita e qua e là mostrava la trama, che una stoffa lacera e dei cuscini sordidi coprivano il divano d’angolo; ancora uno sguardo e si era convinti: si rivelavano gli strappi delle tendine, i vetri spezzati degli acquerelli, i libri polverosi o sdruciti, le larghe screpolature del soffitto; e se poi alfine era presente la padrona di casa, non c’era neppur bisogno di cercare, tutta questa corruzione saltava agli occhi come accusata dalla figura della donna.
Lisa sedette davanti alla scrivania ed aspettò; ora l’idea della colazione le tornava, ne aveva una gran voglia, non sapeva come fare: "Se almeno sapessi a che ora viene", pensò con dispetto guardando l’orologio che teneva al polso; alfine seppe dominarsi, rinunziò di nuovo e tornò alle sue fantasie tenere crudeli ed eccitate.
"Lo farò sedere sul divano" pensò ad un tratto, "e mi distenderò dietro di lui… parleremo un poco… poi comincerò a pungerlo su qualche soggetto scabroso… e lo guarderò… se non è uno sciocco capirà"; osservava il divano come un istrumento di cui si vuol valutare la bontà e l’efficacia; e se tutto andava bene avrebbe fatto aspettare l’adolescente per il gusto delicato di vederlo sospirare, e finalmente, dopo qualche giorno, l’avrebbe invitato a cena e l’avrebbe trattenuto tutta la notte; che cena sarebbe stata quella: delle leccornie, e soprattutto del vino: avrebbe indossato quel suo vestito che le stava così bene, azzurro, e si sarebbe ornata di quei pochi gioielli che aveva potuto salvare dalle mani rapaci del suo ex-marito; la tavola sarebbe stata preparata qui, nel boudoir, la sala da pranzo era meno intima; una tavola per due, piena di buone cose, del pesce, dei pasticci di carne e di legumi, dei dolciumi; una tavola piccola, ricca e scintillante, per due, per due soltanto, un terzo non ci sarebbe entrato, neppure a volercelo…
Con occhi brillanti di gioia e di tenerezza ella si sarebbe seduta di fronte al suo caro ragazzo, pur mangiando non avrebbe cessato di guardarlo, gli avrebbe versato del vino, molto vino, gli avrebbe parlato in tono scherzoso, curioso, allusivo, materno; si sarebbe informata dei suoi piccoli amori, l’avrebbe fatto arrossire; gli avrebbe ogni tanto gentilmente ammiccato, si sarebbero toccati coi piedi là sotto la tavola; finita la cena avrebbero insieme sgombrato la tavola, ridendo, toccandosi e urtandosi per il gran desiderio di possedersi; poi ella si sarebbe spogliata, avrebbe infilato una vestaglia, e a Michele avrebbe fatto indossare uno di quei pigiama di suo marito; gli sarebbe andato a meraviglia, avevano ambedue la stessa statura sebbene l’adolescente fosse più sottile; seduti sul divano lei e Michele avrebbero conosciuto la gioia irritante e avara di questa loro vigilia della prima notte… finalmente sarebbero andati insieme nella camera da letto.
Un po’ eccitata da queste fantasie stava seduta presso la scrivania.
Teneva la fronte bassa, ogni tanto come per scacciare i pensieri si ravviava i capelli, oppure, pur senza cessare di pensare, storceva i piedi e si guardava le scarpe; il rumore del campanello accelerò i battiti del suo cuore; sorrise, si guardò in uno specchio, uscì nel corridoio.
Prima di aprir la porta accese la luce; Michele entrò.
"Forse sono venuto troppo presto?" egli disse appendendo il mantello e il cappello all’attaccapanni.
"Figurati". Passarono nel boudoir, sedettero sul divano: "Come va?" domandò Lisa; prese una scatola di sigarette e ne offrì al ragazzo; egli rifiutò e stette sovrappensiero, colle mani sui ginocchi.
"Va bene", rispose finalmente; silenzio.
"Se permetti" disse la donna "io mi distenderò sopra il divano… ma tu… stai… stai… comodo".
Alzò le gambe e s’allungò sopra i cuscini; Michele vide le due cosce goffe e bianche e ne sorrise dentro di sé; quell’idea gli tornò: "Evidentemente vuole eccitarmi"; ma Lisa non gli piaceva, proprio no, e tutto questo gli era indifferente.


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