Ci sono romanzi che richiamano l’attenzione tramite generosi sfoggi di cinismo e violenza, sbraitando. Ce se sono altri che sfidano il lettore in modo opposto: con la consapevolezza della persistenza dell’umanità. Quella sensazione indefinita percepita in certi istanti di commozione, coesistenza di fragilità e forza. Quell’umanità che ci fa comodo scordare, preferendo perfezioni da spot pubblicitario o algidi menefreghismi cotonati che ci fanno anche da casco protettivo integrale nei confronti dei sentimenti, quelli veri, quelli ingombranti, imbarazzanti, non liquidabili con uno slogan o una battuta in romanesco stile Sordi riproposto da Bonolis. Il rischio di chi scrive di amore vero, profondo, per uomini o animali o per qualsiasi altro essere, pensiero, ideale, è quello di essere relegati nel settore mentale delle favolette o di essere archiviati con un sorriso di disprezzo, come a dire, ti rispetto, ma il libro Cuore è dell’800 e per quel poco che mi ricordo mi ha schifato. Viste tali premesse, si salva solamente, e ci salva, il cuore che sa mostrarsi nudo , vero da fare schifo, poi paura, poi riflessione, poi scoperta, poi sfida, gioco serissimo, a nascondino, con la speranza di perdere.
Questo libro di Claudia Manuela Turco alias Brina Maurer fa parte della categoria dei romanzi scritti in punta di penna, sussurrati con una dolcezza penetrante, come per farti il dono, ingombrante, di quell’umanità che si era certi di avere archiviato con cura. L’intento dell’autrice, ed è questo uno dei punti di forza del libro, non è quello di mostrare la sua bontà o quella del cane protagonista della vicenda narrata, non pretende di essere canonizzata o di osservare occhi spalancati e vedere inserite le gesta del cane nel Guinness dei Primati. Pretende solo di condividere l’emozione di una vicenda realmente vissuta, percorsa passo dopo passo, con tenacia, cercando di danzare con lievità sul filo che unisce e separa il dolore e la speranza, il pianto e il riso.
La trama del romanzo, ricca di dettagli e di riferimenti precisi, racconta, in estrema sintesi, l’incontro tra un essere umano e un cane. Narra il modo in cui ciascuno salva la vita all’altro. L’ambientazione iniziale viene riassunta in modo sintetico e possente: “Ci sono luoghi ove una bestemmia vale una preghiera e una preghiera equivale a una bestemmia”. Un luogo circoscritto ma in realtà ampio, esteso fuori e dentro i domini del tempo e dell’uomo. La scintilla iniziale, determinante, è l’incontro tra la protagonista e il cane. La condivisione profonda è fatta di malattia, ma anche di volontà di vita. Il testo si muove in modo fluido tra favola e realtà. Ma è la seconda che prevale, con la forza di inglobare e di rendere affine a sé tutto quell’insieme di esplorazioni di mondi possibili che l’autrice propone con verve. Si passa dal diario al romanzo di avventura, al reportage dettagliato di ambienti e momenti del nostro tempo, per poi tornare sempre a quella che, in fondo, è una storia d’amore tra due esseri “predestinati dalla notte dei tempi”. Si finisce per crederci davvero, ci si concede la pena e il lusso di crederci. Utile, in questo contesto, è il riferimento a dettagli concreti, la nuda verità, nuda e cruda come i resoconti medici e le cartelle cliniche della protagonista, proposte sovente come brani di prosa che assume la nitidezza tagliente e ritmata di una poesia verista, anzi vera: “osteotomia con callo, antiversione annullata, elettroterapia, deambulazione ancora incerta”.
Se il silenzio rende il mondo irreale, la parola ha il potere di rendere reale la speranza. La voce narrante propone un accurato romanzo di formazione, la famiglia, gli studi, le ferite fisiche e morali ma anche lo sguardo diretto oltre, verso un altrove, un altro luogo possibile. L’adozione del cane che genererà gradualmente la salvezza della protagonista ha toni dickensiani. Come David Copperfield o Oliver Twist si passa dalla sofferenza che appare priva di sbocco al recupero della serenità. La lingua di terra su cui si muove l’autrice è stretta, sottile: da un lato c’è l’abisso della retorica dall’altro il vuoto inconsistente di una storia priva di sostanza e di un valore che vada al di là della singola vicenda descritta. Brina Maurer riesce a procedere diritta e a passo costante, grazie alla sincerità dell’ispirazione. Non pretende facili consensi e non aspira ad applausi di maniera. Si percepisce che ciò che racconta le sta realmente a cuore e di conseguenza quando scrive che ogni organo del corpo del suo amato cane si era spento tranne il cuore, le si può credere, si può ricevere la sua emozione senza erigere barriere di distacco protettivo.
Il libro mostra, senza pretendere di dimostrare, che alcuni riescono a salvarsi la vita ripartendo dalle piccole cose. Il dolore fa precipitare al grado zero, all’annientamento di ogni prospettiva. Da quel momento, l’alternativa è tra un crollo definitivo e una risalita, lenta, graduale. Con un linguaggio nitido e ben ritmato, ricco anche di una forma tenace di ironia, l’autrice ci indica in modo concreto il valore di ogni gesto, il riso e il pianto, la rinascita a dispetto del destino.
Imparare dagli occhi e dai gesti di un animale, nello specifico di un cane, il valore di ogni oggetto, ogni sapore percepito, ogni istante vissuto, è il succo, il senso profondo di questo libro. L’argomento è stato trattato molte volte, in ambito letterario e cinematografico, vengono in mente tra gli altri i lavori di lavori di Kipling, Jack London, Virginia Woolf. Per riuscire a esprimersi in modo originale lasciando un’impronta autonoma era necessario assimilare questi modelli per poi metabolizzarli lasciando emergere l’esperienza personale, l’emozione individuale. La straordinarietà di una vicenda è resa credibile dal fondamentale ampio e accurato resoconto della normalità dei giorni, delle azioni. Una incontro che cambia una vita si concretizza nell’istante in cui la cognizione del dolore confluisce nell’alveo di un amore altrettanto costante e possente.
La sfida per il lettore è quella di venire a patti con una vicenda fatta di sentimenti che impongono un coinvolgimento non di maniera. Il beneficio è quello di poter accogliere in sé una storia non patetica, senza pesanti tirate moralistiche, senza la certezza della ragione, ma con il gusto del racconto, l’evoluzione di una vicenda biografica, il passaggio da uno stato di crisi ad una soluzione, o almeno, alla capacità di non smettere di cercare uno spiraglio, una via, una forma di resistenza e di esistenza degne di tale nome. Come indicano le parole conclusive del romanzo: “La pura luce era salva. La donnacane e il canedonna avevano trovato la loro dimensione”. Il dono, di non poco conto, consiste nella possibilità di non considerare fuori luogo l’aggettivo “pura”. Accoglierlo, magari per un istante, osservando la copertina del libro, gli occhi del cane e quella specie di sorriso che genera una domanda e un’ipotesi di risposta.
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