di Gaetano Vallini
Edgar Allan Poe era attratto dalla bellezza «miracolosa» derivante dalla tecnica
Per Baudelaire invece la fotografia avrebbe contribuito al funerale della creatività dell’arte
«Un’invenzione fatale». È la definizione che diede della fotografia lo scrittore, pittore e critico musicale Alberto Savinio (1891–1952) in un articolo apparso su «La Stampa» negli anni Trenta, nel quale l’autore si spinge ad arditi accostamenti: «Quando la fotografia fu inventata — vi si legge infatti — sembrò che il mondo da un alto sonno si levasse. L’invenzione della fotografia segna un punto di trasformazione nella storia dell’umanità, supera per certi riguardi la conquista di Costantinopoli, la scoperta dell’America, altre “chiavi di volta” della storia». E arriva a nominare il «passaggio dalla Scolastica ai principi di filosofia nuova per opera di Bacone da Verulamio», risalendo nientemeno che a Socrate.A citare questo enfatico articolo è Diego Mormorio — storico e critico della fotografia, nonché appassionato di letteratura (è stato allievo di Leonardo Sciascia) — in apertura del suo ultimo lavoro Scrittori e fotografia. Un magnifico inizio. 1840–1870 (Roma, Postcart, 2013, pagine 324, euro 20), primo volume di una collana di dieci titoli realizzata dallo stesso autore, che ripercorre con dovizia di particolari l’iniziale controverso rapporto tra queste due discipline. Un articolo esageratamente enfatico, e probabilmente poco documentato quello di Savinio, perché, come sottolinea subito dopo Mormorio, «in realtà l’invenzione della fotografia non apparve né fatale né tantomeno così considerevole da essere accostata a Bacone e a Socrate». Tutt’altro che improvvisa e inattesa, rientrava infatti tra le curiosità parascientifiche. Gran parte della gente non ne seppe nulla per parecchio tempo. E gli scrittori, i letterati, non fecero eccezione nel dividersi tra entusiasti, contrari e qualche indifferente.Che il tema fosse tuttavia considerato interessante lo rivelerà nel 1898 un sondaggio effettuato dalla rivista «Mercure de France», che rivolse ad alcuni scrittori questa domanda: «Siete favorevoli o contrari a illustrare i romanzi con fotografie?». Oggi, a parte quelli per i bambini, i libri non hanno immagini, ma i romanzi ottocenteschi erano ricchi di illustrazioni. Il quesito era dunque mirato e originava da alcuni esperimenti in questo senso. Le risposte, ventiquattro, rispecchiarono la disomogeneità dei giudizi dell’epoca: tredici favorevoli, dieci contrari e una non meglio catalogabile.
Mormorio — che già nel 1988 aveva pubblicato in Italia la prima antologia letteraria sulla fotografia — entra ora nello specifico, scandagliando gli scritti dei maggiori autori di metà Ottocento. E nel percorso descrive le diverse modalità con le quali i letterati hanno raccontato la fotografia attraverso la parola scritta, rappresentandola, utilizzandone l’idea e la suggestione come elemento della narrazione. Quanti l’apprezzarono da subito compresero che la fotografia era speciale: era parte della realtà, ma aveva però la pretesa di volerla anche rappresentare. Tuttavia, proprio perché in concorrenza con le parole, altri scrittori considerarono questa nuova forma d’arte come rivale, mal sopportandola.Lo spiegò bene tempo fa in un convegno il critico Michele Smargiassi: «La fotografia incontra senza problemi la pagina scritta solo quando lo scrittore tiene la penna per il manico, quando è lui a raccontare la fotografia con le sole parole, a inserirla fra gli oggetti narrativi del suo racconto. Ma la fotografia vuole di più, pretende di essere non solo narrata, immaginata, ma vista».Pur senza privare il lettore del piacere della scoperta, possiamo anticipare alcune delle digressioni di Mormorio per scoprire, ad esempio, che Mark Twain all’inizio osteggiò la fotografia, salvo apprezzarla in seguito. Al contrario John Ruskin, pur considerandola inferiore alle classiche forme di arte, riconobbe in essa la capacità sconosciuta fino ad allora di rappresentare la realtà fedelmente e immediatamente. Gustave Flaubert dal canto suo raccomandava in diverse lettere alla propria amante di non inviargli nessuna sua fotografia perché paradossalmente ne rifiutata proprio la capacità di rappresentare il reale. Charles Baudelaire, invece, appariva meno assertivo, visto il suo rapporto complesso e controverso con il nuovo strumento. E così, malgrado l’amicizia con uno dei pionieri della dagherrotipia, Paul Nadar, e nonostante avesse predetto che l’avvento della fotografia avrebbe avuto notevoli conseguenze sulle arti figurative intuendone persino un’evoluzione manipolativa, nondimeno ribadì più volte che la fotografia altro non era che il rifugio di pittori mancati e che avrebbe di fatto contribuito al funerale della creatività dell’arte in Francia. Più distaccato Alexandre Dumas, che cercò di leggere il fenomeno con la chiave dell’ironia. Quindi, pur non dichiarandosi particolare estimatore, accettò di farsi fotografare, ma solo da “fotografesse”, come le aveva ribattezzate.Ancora. Edgar Allan Poe era attratto dalla bellezza “miracolosa” derivante non dall’estetica ma dalla tecnica. Victor Hugo si metteva davanti alla macchina fotografica per guardare dentro di sé anticipando quella che sarebbe stata la fotografia concettuale. Nathaniel Hawthorne pareva interessato alla nuova espressione figurativa non per il suo realismo ma per le sue possibilità rivelatrici. Honoré de Balzac si mostrava a disagio invece di fronte a un’innovazione che a suo dire rubava ogni volta qualcosa di irrecuperabile al soggetto ritratto.E così, di personaggio in personaggio, Diego Mormorio dà conto di quel faticoso, ma pur sempre magnifico inizio che avrebbe legato la fotografia alla letteratura, in parte influenzandola. La prima — così come aveva fatto con i pittori — contribuì infatti a rinnovare anche lo sguardo degli scrittori. Perché trattasi di due arti complementari: una mostra, l’altra descrive; una cristallizza l’attimo, l’altra lo rimette in movimento situandolo in un contesto temporale. Ma entrambe possono “vivere” da sole. Un rapporto che, per quanto saldo, venne però in seguito spartito, come probabilmente leggeremo almeno per inciso nei volumi successivi, con un’altra, nuova e ancor più sorprendete arte: il cinema. Anzi è stato con il cinema che la letteratura ha poi stretto il patto più forte, per comprensibili affinità. Molti romanzi hanno ispirato film, diversi scrittori sono diventati sceneggiatori. Ma questa è un’altra storia.(©L'Osservatore Romano – 1 dicembre 2013)