Servaas Storm, econonomista eterodosso olandese vincitore del Premio Myrdal 2013 e autore di Macroeconomics Beyond the NAIRU (Harvard University Press, 2012), sfida la visione mainstream della crisi dell’eurozona che ha per lungo tempo contagiato anche il campo eterodosso: gli squilibri tra i paesi dell’Eurozona, spiega Storm, non dipendono dal differenziale accumulato del costo del lavoro, né in generale dai prezzi, ma vanno ricercati nel lato finanziario dell’economia europea.
In risposta alla mia analisi critica della moderazione salariale tedesca e della crisi dell’euro zona, Heiner Flassbeck e Costas Lapavitsas hanno chiarito la loro versione su ciò che grosso modo si intende per modello da manuale neoclassico di una unione monetaria. Il loro punto principale è che non ci sarebbero stati grandi squilibri delle partite correnti insostenibili all’interno della zona euro, e di conseguenza nessuna crisi del debito sovrano nei paesi in deficit, se tutti gli Stati membri avessero mantenuto la crescita dei salari nominali pari alla crescita della produttività del lavoro più il 2% (l’obiettivo di inflazione). Professor Wren-Lewis (2016) ha sostenuto lo stesso punto.
Il delicato equilibrio delle partite correnti con l’estero è stato deliberatamente sconvolto dalla moderazione dei salari nominali praticata dalla Germania mercantilista, che ha portato la crescita del surplus commerciale tedesco ad essere il rovescio della medaglia della crescita del deficit commerciale nel Sud Europa. E’ piuttosto ironico, a mio parere, che una logica simile sia adottata da osservatori mainstream come Sinn (2014) o persino dallo stesso signor Schäuble, con questa differenza: Sinn e Schäuble sostengono che gli squilibri delle partite correnti sono stati causati da un errore dei paesi in crisi nel seguire l’esempio di successo della Germania del taglio dei costi unitari del lavoro. Mi spiego meglio: il problema per me non è quale delle due parti di questo dibattito – da un lato chi accusa la Germania di impoverire i suoi vicini portando i propri salari su livelli inferiori, dall’altro coloro che lodano la Germania per essere ultra super competitiva dal lato dei costi – sia quella nel giusto. Entrambe le parti sono in errore nel pensare che il semplice modello da libro di testo possa essere utilizzato in maniera credibile per sostenere che gli squilibri dell’Eurozona sono stati causati da perdite (esogene) o da guadagni di competitività sui costi unitari del lavoro. E’ un mito, o, come Marx avrebbe forse sostenuto, un feticcio: un totem reificato che risiede nel modo di comprendere ciò che sta realmente accadendo. E’ giunto il momento di abbandonare questo mito per almeno i seguenti cinque motivi.
Dove sono le grandi Banche?
In primo luogo, il modello presentato da Flassbeck e Lapavitsas è distintamente riconducibile ad una visione pre-Hilferding (1910), poiché nella loro ripresa, il capitalismo dell’ Eurozona è un capitalismo che deve ancora entrare nella fase di “monopolio della finanza.” Che ruolo hanno le grandi banche, i flussi finanziari lordi tra paesi, e l’azione della BCE nell’analisi di Flassbeck e Lapavitsas? La risposta è: nessuno. Essi si concentrano esclusivamente sulle importazioni e sulle esportazioni di beni e servizi, e il loro silenzio sulle banche, i flussi finanziari e tassi di interesse riflette una visione in cui il “settore finanziario” della zona euro si adegua semplicemente in modo passivo a tutto ciò che accade nell’economia reale. La loro visione emerge più chiaramente quando confrontano i paesi della zona euro (a ognuno dei quali manca una propria valuta nazionale) con un paese dotato di propria moneta, in modo da sostenere che in quest’ultimo caso, i surplus commerciali (o i deficit) possono essere solo temporanei, perché dopo un po’ un apprezzamento (deprezzamento) automatico del tasso di cambio “di equilibrio” avrebbe portato giù il surplus (deficit).
Nel mondo reale post-Hilferding, tuttavia, non vi è alcun simile automatismo da libro di testo, perché l’impatto dei flussi commerciali sul tasso di cambio è – generalmente – travolto dagli effetti dei flussi finanziari lordi transfrontalieri, che (soprattutto) sono per lo più estranei al commercio (Akyüz 2014; Bortz 2016). Questo vale anche per la zona euro: i miliardi di euro prestati dalle banche tedesche alle imprese (finanziarie) in Irlanda e in Spagna, e da parte delle banche francesi a imprese (finanziarie) in Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna non erano legati al finanziamento del commercio (vedi O’Connell 2015). E sono proprio questi flussi finanziari lordi dal nucleo della zona euro verso la periferia, per lo più provenienti da potenti banche “troppo grandi” per fallire (O’Connell 2015), che hanno svolto un ruolo centrale nel determinare gli squilibri e destabilizzare la zona, ruolo riconosciuto dal professor Bofinger (2016) e dalla cosiddetta “narrativa condivisa” (2015), ma lasciato sotto silenzio e non analizzato da Flassbeck e Lapavitsas, la cui “diagnosi” della crisi dell’Eurozona assomiglia così ad Amleto ma senza il Principe di Danimarca.
E la concorrenza oligopolistica?
In secondo luogo, Flassbeck e Lapavitsas si avvalgono di una nozione piuttosto debole di concorrenza tra imprese, che, secondo loro, è centrata sulla riduzione dei costi unitari del lavoro mediante guadagni di produttività. Essi scrivono che “le condizioni dell’offerta sono praticamente date per tutte le [imprese] poiché le forze di mercato tendono a pareggiare i prezzi dei beni intermedi e il costo del capitale” [corsivo aggiunto] e quindi le imprese più innovative (quelle che riescono a tagliare i costi unitari del lavoro) tendono a fare più profitti e a crescere, mentre quelle meno innovative perdono quote di mercato e, infine, muoiono.
Questo è notevole. Per far funzionare il loro ragionamento, essi presumono che la concorrenza (globale) garantisca una perequazione dei prezzi tra paesi – qualcosa che [persino] la maggior parte degli economisti neoclassici mette in dubbio su base empirica – e che teoricamente richiederebbe di assumere mercati perfettamente concorrenziali. Da notare che Wren-Lewis (2016) ricade esattamente nella stessa ipotesi. Questo implica che secondo Flassbeck, Lapavitsas e Wren-Lewis, le imprese non hanno il potere di determinazione dei prezzi, condividono le stesse tecnologie di produzione, e producono più o meno beni simili (omogenei). Tutto questo non è realistico: nel mondo reale, imprese oligopolistiche che fissano i prezzi operando in massicce catene globali di produzione, sono impegnate nella differenziazione del prodotto, nella creazione di marchi, e producono beni che sono molto diversi in termini di complessità, qualità e tecnologia incorporata (vedi Felipe e Kumar 2011; Janger et al. 2011).
Ciò che Flassbeck e Lapavitsas non riescono a vedere sono le condizioni materiali della zona euro: le imprese tedesche, che producono prevalentemente beni high-tech, ad alto valore aggiunto, su fasce alte di prezzo e di alta complessità, non sono in concorrenza diretta con le imprese spagnole, portoghesi, greche o persino con la maggior parte delle imprese italiane, che sono specializzate in beni a più bassa tecnologia, più basso valore aggiunto, con bassi prezzi e minore minore complessità (Simonazzi et al. 2013). Le imprese tedesche fissano i loro prezzi e dominano le loro nicchie di mercato, mentre le imprese greche e portoghesi, competono invece sui costi con i produttori a basso costo dell’Asia (ma non solo sui costi del lavoro) e finiscono con l’essere buttate fuori dai loro mercati dai loro concorrenti cinesi (Straca 2013). Il risultato è che la concorrenza nei mercati oligopolistici del mondo reale non può essere ridotta ad una semplice concorrenza sui costi – così come i libri di testo vogliono farci credere. E se proprio si vuole insistere nel mettere a fuoco i costi unitari del lavoro, allora non c’è ragione per cui non si dovrebbe guardare anche ai costi unitari del capitale (o ai margini di profitto), come sostenuto da Felipe e Kumar (2011); le imprese oligopolistiche potrebbero pure competere sui margini di profitto.
L’evidenza empirica
In terzo luogo, Flassbeck e Lapavitsas non offrono alcuna evidenza empirica a sostegno delle loro affermazioni. Vorrei evidenziare quattro “fatti” empirici che vanno contro la loro principale argomentazione. In primo luogo, le elasticità dell’export/import ai costi unitari relativi del lavoro tendono ad essere molto più piccole (in termini di dimensioni assoluto) delle corrispondenti elasticità di prezzo, a causa del fatto che (a) i costi salariali rappresentano solo circa il 22% dei costi totali di produzione; e (b) che le imprese quando fissano i prezzi scaricano su questi ultimi più o meno solo la metà dei più alti costi salariali (Storm e Naastepad 2015). Ciò significa che una elevata elasticità dei prezzi all’export di -1,2 corrisponde ad una molto più piccola elasticità al costo unitario del lavoro della domanda di esportazioni di (circa) -0,13. Quindi, per spingere verso l’alto le esportazioni (reali) di uno scarso 2% i salari nominali dovrebbero diminuire di ben il 15% (supponendo invarianza della produttività). E’ come dire che la coda scodinzola il cane.
In secondo luogo, vi è una chiara evidenza che in paesi come la Spagna, il deficit commerciale è aumentato a causa di una più veloce crescita delle importazioni, mentre la crescita delle esportazioni è rimasta costante. Se è così, la domanda è: perché un (più alto) costo relativo unitario del lavoro dovrebbe avere un impatto unilaterale sulle importazioni e non sulle esportazioni?
In terzo luogo, se si vuole individuare l’impatto dei costi relativi unitari del lavoro sul commercio, si dovrebbero isolare gli altri fattori che influenzano il commercio ed in particolar modo l’impatto del reddito e della crescita della domanda. Ma così facendo si dimostra che la crescita del reddito mondiale già spiega completamente la crescita delle esportazioni e la crescita del reddito nazionale spiega completamente la crescita delle importazioni per la maggior parte delle economie in questione (Bussière et al. 2011). In altre parole, l’effetto di reddito risulta predominante rispetto a qualunque impatto di competitività da costi, soprattutto nel lungo periodo (vedi Schröder 2015 per l’elaborazione).
Infine, come in ogni buona narrazione, ecco per ultimo il risultato più importante: i costi unitari del lavoro nei paesi in crisi hanno iniziato ad aumentare solo a seguito di un precedente peggioramento nei conti commerciali (Diaz Sanchez e Varoudakis 2013; Gabrisch e Staehr 2014). Ciò indica che l’aumento dei costi unitari del lavoro sono la conseguenza, piuttosto che la causa, dei crescenti squilibri. E’ difficile vedere qualcosa di diverso. L’evidenza empirica ci parla di volumi e smentisce il mito del costo unitario del lavoro (per argomentazioni sulla questione, si veda anche: Felipe e Kumar 2011; 2013; Wyplosz Diaz Sanchez & Varoudakis 2013; Gabrisch & Stæhr 2014; Janssen 2015; Schröder 2015).
Qual è il ruolo dei redditi e della domanda aggregata?
In quarto luogo, l’aspetto saliente dell’analisi degli squilibri dell’Eurozona di Flassbeck e Lapavitsas è che essa non prevede alcun ruolo per (o riferimento a) la “domanda aggregata” o per il “reddito”. Il loro è un esempio di ingiustificato riduzionismo in cui le esportazioni, diciamo, della Germania (che costituiscono le importazioni, diciamo, della Spagna) dipendono esclusivamente dai costi relativi unitari del lavoro della Germania nei confronti della Spagna.
Questo non può essere vero. Chiaramente, le esportazioni della Germania verso la Spagna dipendono anche dalla domanda aggregata, se non altro perché una parte considerevole delle importazioni spagnole è costituita da beni strumentali (macchine e attrezzature) e prodotti intermedi (materiali high-tech e componenti) e, pertanto, è per natura complementare (Bussière et al. 2011). Supponiamo che le esportazioni E di un paese dipendano dal reddito mondiale W e dai costi relativi unitari del lavoro c, mentre le importazioni M dipendano dal reddito nazionale Y e dai costi relativi unitari del lavoro c. Possiamo quindi scrivere la seguente espressione generale (in logaritmi) per la bilancia commerciale di quel paese (vedi Fagerberg 1988):
dove ϑ_w è l’elasticità delle esportazioni al reddito mondiale del paese i; ϑ_y è l’elasticità delle importazioni al reddito del paese i; ε è l’elasticità delle esportazioni ai costi relativi unitari del lavoro del paese i; μ è l’elasticità delle importazioni ai costi relativi unitari del lavoro del paese i;
Utilizzando questa equazione è semplice vedere che Flassbeck e Lapavitsas, ma anche Wren-Lewis, che si concentrano tutti sui costi relativi unitari del lavoro, mancano una parte importante (se non tutta) della dinamica. La loro tesi è che se i costi unitari del lavoro nella zona euro sono costanti (c = 1 e ln c = 0), la bilancia commerciale non cambierà. Dall’equazione risulta, tuttavia, che questo si verifica solo in condizioni molto particolari, cioè quando la crescita delle esportazioni indotta dalla crescita del reddito mondiale è uguale alla crescita delle importazioni di quel paese indotta dalla crescita del reddito nazionale. Non c’è assolutamente alcuna ragione per cui queste circostanze particolari si verifichino e quindi, in condizioni normali e realistiche, ci si deve aspettare che i saldi commerciali migliorino o peggiorino a seconda che la crescita delle esportazioni indotta dalla crescita del reddito mondiale superi la crescita delle importazioni indotta dalla crescita della domanda interna o meno.
Scendendo nello specifico consideriamo ora la Spagna che si specializza nell’esportazione di beni a medio-bassa tecnologia, per i quali la domanda mondiale non è molto elastica rispetto al reddito (ϑ_w è piuttosto bassa); allo stesso tempo la Spagna importa beni capitali high-tech e beni intermedi sofisticati (dalla Germania) per i quali l’elasticità al reddito (ϑ_y) è piuttosto elevata. Di conseguenza, per la Spagna ϑ_y > ϑ_w. Ciò implica che, anche quando la Spagna cresce allo stesso ritmo dell’economia mondiale (o della zona euro), la sua bilancia commerciale necessariamente peggiora, perché la crescita delle sue importazioni supera la crescita delle sue esportazioni.
Esattamente il contrario vale per la Germania che fornisce beni capitali e beni di consumo ad alta tecnologia alle destinazioni più rapida crescita (ad esempio, la Cina e, fino a poco tempo fa, alla Russia). Quindi, la domanda di esportazioni di alta tecnologia della Germania ha una elevata elasticità al reddito mondiale, mentre la maggior parte delle importazioni della Germania sono complementari (e l’aumento è in linea con la produzione e la domanda interna) (Bussière et al. 2011). Di conseguenza, per la Germania ϑ_y < ϑ_w e perciò il suo surplus commerciale tende a crescere anche quando la crescita interna è uguale a quella mondiale (o dell’eurozona). Questi sentieri divergenti e asimmetrici sono la conseguenza diretta di differenze nella specializzazione produttiva (Simonazzi et al. 2013). Di tutto ciò non si trova traccia in Flassbeck e Lapavitsas e in Wren-Lewis.
Non sarà utile avere salari più alti ed una più alta inflazione in Germania
Infine, Flassbeck e Lapavitsas depongono a favore di più alti salari tedeschi (e superiore inflazione tedesca), proprio come Wren-Lewis (2016), nella convinzione errata che ciò abbasserà competitività da costi della Germania, ridurrà il suo surplus commerciale, e quindi riequilibrerà l’Eurozona nel complesso. Tuttavia, le esportazioni e le importazioni tedesche, come ho sostenuto in precedenza, non sono molto sensibili alle variazioni dei costi relativi unitari del lavoro, e quindi ci sarà solo una quantità limitata di sostituzione dai prodotti tedeschi verso i beni esteri, come è stato anche dimostrato in modo convincente da Schröder (2015). Ripeto per amor di chiarezza che sono fortemente a favore di una maggiore crescita dei salari nominali (maggiore della crescita della produttività del lavoro più 2%) in Germania. Sarà sicuramente di aiuto per la Germania. Ma non aiuterà la crisi i paesi della zona euro.
Una maggiore crescita dei salari tedeschi e una maggiore domanda tedesca non costituiscono di per sé una strategia di recupero per la zona euro, come dimostrano gli effetti di ricaduta (diretti e indiretti) del valore aggiunto della crescita tedesca sul valore aggiunto di altri paesi europei, che si verificano attraverso gli effetti moltiplicativi diretti e indiretti intersettoriali che operano nelle catene di produzione globali. In particolare, se la crescita della Germania si risolve in più elevati produzione e valore aggiunto negli Stati Uniti, e se le imprese negli Stati Uniti acquisiscono prodotti intermedi e componenti dalla Corea del Sud, e se a sua volta le imprese della Corea del Sud utilizzano inputs prodotti in Italia o Spagna, l’impatto indiretto della crescita tedesca sul valore aggiunto in Italia o Spagna è compreso negli effetti totali di ricaduta sul valore aggiunto riportati nella tavola 1. Le ricadute stimate della crescita tedesca sul valore aggiunto sono, in altre parole, stime molto complessive. Le ricadute sul valore aggiunto sono state calcolate utilizzando l’intera matrice mondiale di dati di input-output per il 2011 del World Input-Output Database (WIOD), che comprende 35 settori (14 industrie manifatturiere) in 40 paesi (tra cui tutti i 27 membri del Unione europea a partire dal 1 gennaio 2007). Le stime forniscono una valutazione dei fatti che fa riflettere su ciò che la crescita tedesca può fare per la ripresa economica della zona euro.
L’ipotesi è che il PIL tedesco aumenti di 100 miliardi di euro (il che significa che il PIL tedesco cresce del 3,7%). Attraverso le catene di produzione a livello mondiale, la crescita tedesca crea 29,5 miliardi di euro di reddito nel resto del mondo e circa 7 miliardi di euro nei paesi europei selezionati elencati nella tabella 1.
Table 1 Value Added Spillovers Caused by a €100 billion increase in German GDP (2011)
Value added spillovers (billions of €)
GDP 2011 (billions of €)
% change in GDP
Population (millions)
Germany 100.00 2703.1 3.70 81.8
France 1.25 2059.3 0.06 65.0
The Netherlands
1.30
642.9
0.20
16.7
Belgium
0.73
379.1
0.19
11.0
Austria
0.70
308.6
0.23
8.4
Western Europe
3.99
3390.0
0.12
101.0
Italy
0.99
1638.0
0.06
59.4
Greece
0.02
207.0
0.01
11.1
Portugal
0.10
176.2
0.06
10.6
Spain
0.54
1070.4
0.06
46.7
Southern Europe
1.66
3092.5
0.05
127.7
Poland
0.70
380.2
0.19
38.1
Czech Republic
0.48
163.6
0.29
10.5
Slovak Republic
0.16
70.4
0.22
5.4
Slovenia 0.06 36.9 0.16 2.1
Eastern Europe
1.40
651.1
0.21
56.0
Rest of the world
15.41
Total foreign value-added spillover
29.50
Notes: Data on GDP and population are from Eurostat Database. The value added spillovers are estimated using data for 2011 from the World Input-Output Database (WIOD). I am very grateful to Sebastiaan Leysen for estimating these value-added spillover effects.
Questo dimostra già che un focus solo sulla zona euro è limitativo, perché la maggior parte delle ricadute del commercio e del valore aggiunto della crescita tedesca si verifica al di fuori di tale zona. Del valore aggiunto creato dalla crescita tedesca in Europa, quasi il 57% (3.99 miliardi di euro) è reddito addizionale in Austria, Belgio, Francia e Paesi Bassi, un altro 20% (1.4 miliardi di euro) in Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, e Slovenia, e il resto (1,66 miliardi di euro) nel Sud Europa. Tanto per chiarire: la ricaduta combinata derivante dalla crescita tedesca sul valore aggiunto nella Repubblica Ceca, Slovacchia e Slovenia (con una popolazione complessiva di 17,9 persone) è maggiore in termini assoluti della corrispondente ricaduta combinato combinata sul valore aggiunto in Grecia, Portogallo e la Spagna (con una popolazione complessiva di 68,4 milioni di persone). La crescita tedesca aumenta in modo significativo la crescita del PIL nei Paesi Bassi, il Belgio, l’Austria, così come in Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Slovenia, ma non vi è quasi alcuna ricaduta di crescita evidente in Grecia, Italia, Portogallo e Spagna (Tabella 1). La reflazione della Germania attraverso un aumento dei salari tedeschi, della sua domanda e della sua crescita non sarebbe nemmeno lontanamente sufficiente per giungere ad una inversione di tendenza nel Sud Europa. Si tratta di un pio desiderio, e ignora le asimmetrie fondamentali nella produzione, nella tecnologia e nella specializzazione che insieme costituiscono le condizioni materiali del sistema dell’Eurozona.
I veri problemi (ripetiamoli)*
Tutto questo parlare di competitività del costo del lavoro distoglie l’attenzione dal vero problema della zona euro: la moneta comune e l’unificazione monetaria hanno portato ad un processo centrifugo di divergenza strutturale in termini di strutture di produzione, occupazione e commercio (come spiegato nelle mie precedenti note). Questo processo centrifugo è stato alimentato e rafforzato non semplicemente dall’aumento dei flussi di capitale transfrontalieri a seguito dell’introduzione dell’euro, ma anche dalla stessa moneta comune, nonché dalla politica centralizzata con tassi di interesse uniformi della BCE, che fino al 2008 era forse appropriata per la Germania stagnante e con bassa inflazione, ma era innegabilmente fuori obiettivo rispetto ai livelli di inflazione in Europa meridionale (vedi Lee e Crowley 2009; Nechio 2011; O’Connell 2015; Storm e Naastepad 2015). Il credito a buon mercato nel sud ha creato bolle speculative insostenibili e facilitato l’accumulo di debito insostenibile che alimentava una crescita più elevata, con minore disoccupazione e salari più alti, ma (totalmente in linea con i tassi di rendimento) tutti concentrati nei settori non dinamici e spesso non esposti delle loro economie. La moderazione salariale della Germania importava molto, non per il suo presunto impatto sulla competitività da costo, ma per il suo impatto negativo sulla crescita tedesca (per la parte dovuta ai salari) e sull’inflazione, che a loro volta hanno indotto innanzitutto la BCE ad abbassare il tasso di interesse.
La conseguente crisi della zona euro è una profonda crisi di insufficiente domanda aggregata nel breve periodo e ingestibile divergenza strutturale tra i principali Stati membri nel lungo periodo. Quindi, le vere domande sono: come realizzare una convergenza strutturale tra i paesi membri di una zona moneta comune (finora priva di qualsiasi meccanismo significativo di politica fiscale sovranazionale), in termini di strutture produttive, di livelli di produttività e, in definitiva di redditi e di condizioni di vita a lungo termine? Qual è il tasso di interesse appropriato per il “centro” e la “periferia” strutturalmente divergenti se deve essere uno “buono per tutti”? E come possono le banche, il settore finanziario e i flussi di capitali essere fatti per contribuire a un processo di convergenza (invece che di divergenza)? Non ci sono risposte semplici ed è facile cedere al puro “pessimismo della ragione”. Ma se gli economisti progressisti non manifesteranno un “ottimismo della volontà” e non inizieranno seriamente ad affrontare i problemi reali, piuttosto che rimasticare miti sulla competitività da costo unitario del lavoro, il futuro della zona euro si prospetta decisamente preoccupante.
(*) Nota di KB: A differenza dei paragrafi precedenti che sono ampiamente argomentati e convincenti, questa parte conclusiva dell’articolo appare alquanto problematica. Ad esempio, riguardo i differenti tassi di interesse che sarebbero necessari al centro e il periferia, qualora tale differenziazione fosse realizzata essa non frenerebbe i flussi di capitali dal core alla periferia ma, al contrario, tassi di interesse maggiori in quest’ultima attrarrebbero comunque i capitali dal centro. Inoltre l’autore sembra condividere la tesi mainstream (propugnata tra gli altri da John B. Taylor) secondo cui i bassi tassi di interesse sarebbero all’origine delle bolle, quando invece essa va ricercata nella liberalizzazione finanziaria che consente ai capitali di spostarsi alla ricerca di rendimenti più elevati senza “pagare dazio”. In tal senso è corretto dire che la moneta unica ha giocato un ruolo importante, ma esso va individuato appunto nel contesto della liberalizzazione dei movimenti di capitali. L’euro è stato per i paesi periferici dell’Europa ciò che le parità e i titoli in valuta estera o indicizzati all’inflazione sono stati per gli emergenti: una modalità per attrarre capitali dai paesi più ricchi.
Se questo è vero, allora la riforma dell’eurozona passa necessariamente non solo attraverso la riforma della BCE, ma anche attraverso l’abbandono del dogma della libera circolazione dei capitali. In questo contesto, si possono individuare alcune ipotesi tra cui quella assegnare una penalizzazione sull’acquisto di titoli esteri, al fine di limitare le fughe di capitali, stabilizzare la finanza internazionale e ammorbidire gli aggiustamenti delle bilance dei pagamenti. Qualcosa che richiama l’idea originaria della Tobin tax sugli scambi di valute. Sarebbe il caso che i paesi periferici incomincino ad avanzare idee come queste anche al fine di contrastare l’ipotesi tedesca di una forma di bail-in per i paesi periferici che rischia di colpire pesantemente i loro sistemi bancari e potenzialmente di compromettere la stabilità della stessa moneta unica.
Questi temi sono al centro del libro di prossima uscita di Thomas Fazi (euews.it/oneuro) e Guido Iodice (coautore di Keynes blog) intitolato “La Battaglia contro l’Europa“.
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Fonte: http://ineteconomics.org/ideas-papers/blog/rejoinder-to-flassbeck-and-lapavitsas
Traduzione Keynes blog
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