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Gli Stati Uniti, la Siria e il pacifismo come proxy

Creato il 11 settembre 2013 da Elianigris @EliaFNigris

La scorsa notte Obama ha parlato e ha spiegato che cosa intende fare in Siria. Ora, però, credo che sia necessario fare un respiro profondo e analizzare cosa è successo veramente negli ultimi tempi, per quanto riguarda i rapporti tra Siria, Stati Uniti d’America, comunità internazionale e opinione pubblica.

Perché la sensazione forte che ho avuto è che molti dei pacifisti, in particolare quelli italiani, fossero più preoccupati, negli ultimi giorni, a mettere in mostra il loro antiamericanismo, che non fa mai male e fa pure un po’ figo ribelle, con la schiena dritta di fronte all’imperialismo yankee, e fare finta di niente sull’evolversi reale della situazione. In pratica ignoravano, perché spesso non era neppure di loro interesse, i fatti che hanno portato Obama a chiedere al Congresso un voto per permettergli di mettere in atto un attacco militare contro la Siria ed il regime di Bashar al Assad e i termini di questa eventuale azione.

Il loro obiettivo era quello di dire che gli Stati Uniti d’America erano un paese guerrafondaio e pericoloso, i non richiesti poliziotti del mondo, portatori di un concetto distorto e antipatico di democrazia e libertà. Quello che però non si sono mai preoccupati di fare, gli amici, è andare oltre alcuni i fatti storici e concentrarsi sui fatti di cronaca. Con la mente ancora fissa sulla guerra in Iraq, una guerra sbagliata, vale la pena ribadirlo, non hanno neppure perso tempo per capire che nel frattempo sono passati dieci anni e il presidente degli Stati Uniti non è più lo stesso. Non è più lo stesso, vale la pena ribadirlo, perché in democrazia i leader cambiano, nei regimi autocratici no. “Obama vuole bombardare la Siria!”, dicevano e dicono. “Obama è come Bush”, dicevano e dicono. Eppure, a fare bene attenzione, il Presidente degli Stati Uniti, negli ultimi due anni ha fatto di tutto pur di non avviare un confronto armato di nessun tipo con Assad. Come lo stesso Obama ha ricostruito nel suo Presidential Address rivolto alla Nazione la sera del 10/09/2013, la via principe che si è tentato di seguire è stata quella della diplomazia, seguita dalla richiesta di sanzioni internazionali al regime di Damasco.

Obama, bisogna riconoscerlo, non è stato per nulla perfetto in questi due anni. La Siria è entrata davvero nella sua agenda con due anni di ritardo; inoltre, si è messo in una situazione molto difficile quando ha annunciato, circa un anno fa, che l’uso di bombe chimiche sarebbe stata la linea da non oltrepassare per Assad. A questo punto, però, veniamo al dunque: nel momento in cui il 21 agosto 2013 in Siria le milizie di Assad hanno fatto uso di armi chimiche per sterminare indiscriminatamente civili, nell’ordine delle migliaia, tra cui donne e bambini, il Presidente degli Stati Uniti non ha più potuto nascondersi e ha dovuto reagire. Attenzione: la Siria ha oggi ammesso, di averle usate quelle armi, dopo aver negato, inizialmente, anche solo di possederle. Ad ogni modo, senza una reazione, l’ultimatum che Obama fece nel 2012 sarebbe caduto nel vuoto ed eventuali minacce successive del Presidente Obama (e dei suoi successori) non sarebbero state ritenute più credibili da nessuno, il che, per un Presidente degli Stati Uniti d’America, non può essere accettabile.

Ora nella visione distorta degli amici di prima, a questo punto Obama diventa il principale “cattivo” di questa storia. Non Assad che dal 2011 stermina i suoi concittadini, non Assad che nel 2012 si fa una risata della minaccia di Obama sulle armi chimiche (negando di possederle) e forte del fatto che lui i trattati internazionali contro l’uso di queste armi non li ha mai firmati, non Assad che queste armi le ha usate nel 2013, ma il Presidente degli Stati Uniti, Barack H. Obama. Lo stesso presidente che da due anni fa di tutto pure non usare l’esercito da quelle parti. Fa niente che questi vada dicendo da anni che lui è stato eletto Presidente “per finirle le guerre non iniziarle”. Fa niente che egli, non senza critiche feroci da destra e da sinistra negli Stati Uniti e da molti nella comunità internazionale non abbia fatto concretamente nulla eccetto dare ad Assad un ultimatum su quello che non sarebbe stato ritenuto ammissibile. Obama, se mai, dovrebbe essere criticato da chi, come me, pensa che al punto a cui siamo arrivati oggi, ci saremmo dovuti arrivare due anni fa.

Ma torniamo a noi, Obama a questo punto, sembra finalmente fare sul serio e propone un attacco militare mirato in Siria. Mirato nella frase è la parola chiave. Un attacco militare mirato vuol dire che non ha NULLA a che fare con le evocazioni della guerra di Korea, del Vietnam o in Iraq che ho sentito in questi giorni. Non ha nulla a che fare con la guerra in Afghanistan. Non ha nulla a che fare neanche con la Libia e il Kosovo, come ci ha tenuto a specificare lo stesso Obama nel discorso alla nazione del 10/09/2013. Si tratta di un attacco militare che non prevede la presenza di truppe americane sul suolo siriano, ma attacchi aerei mirati (appunto) su obiettivi specifici che rendano impossibile l’uso futuro di armi chimiche. Voi direte, e avete ragione per carità, ogni attacco militare è sgradevole e decisamente non auspicabile in generale, ma una scala di valori tra la bomba atomica e lo schiaffo sulla guancia, nel mondo vero esiste. Questa soluzione era pensata in modo tale da ridurre al minimo il rischio di coinvolgere civili e di limitare la forza repressiva e criminale di Assad. Niente di più e niente di meno. Nessuna mira imperialista sulla Siria e, va detto, nessuna intenzione a risolvere il conflitto e la guerra civile presente nel paese. Ma come, direte voi, tutto questo casino e rimane tutto come prima? Non esattamente: ritengo sia doveroso dire che secondo gli Stati Uniti e la Francia, tra gli altri me incluso, pur in uno scenario in cui la Siria rimane un paese in guerra e in cui Assad rimaneva (presumibilmente) al potere, limitare l’uso di armi così atroci è già, comunque, un buon risultato.

Il problema di questa strategia, però, è arrivato quando in the UK, il parlamento britannico, ha votato no alla proposta di Cameron di sostenere gli Stati Uniti nell’attacco militare precedentemente descritto. Questo per Obama si è rivelato un enorme problema. Da una parte i suoi più grandi alleati si sono espressi sfavorevolmente ad una soluzione di quel tipo, lasciandolo isolato e con Parigi come unica sponda rimasta, dall’altra la Russia che continua a negare la possibilità di un’operazione militare tipo Libia, per intenderci, e ad ultimo la necessità, per Obama, di tenere credibile la propria minaccia rivolta ad Assad. Quest’ultimo punto è cruciale. La minaccia che Obama fece l’estate scorsa deve tornare ad essere credibile, ne va del futuro della politica estera americana, in particolare nel dopo-Obama. Se voi pensate che questo non vi interessi, riflettete anche sul fatto che il prossimo presidente potrebbe non essere più come Obama e avere meno pazienza in situazioni simili del proprio predecessore, tanto che, per ristabilire la credibilità perduta, potrebbe agire in maniera davvero non auspicabile e in contesti decisamente meno giustificabili.

Obama decide quindi di tenere credibile la minaccia e chiede al congresso di autorizzare un attacco militare mirato. Così facendo, però, si è esposto al rischio di una figuraccia enorme. Se il congresso, come sembra probabile (più per questioni che riguardano la politica interna, che la fattispecie specifica di politica estera), negasse al Presidente la possibilità di un intervento, Obama si ritroverebbe delegittimato a casa e senza credibilità fuori. Tutto questo potrebbe succedere perché, e lo dico ancora una volta, Obama ha fatto di tutto, fino ad oggi, pur di trovare una soluzione che non lo costringesse all’uso della forza. Non perché è ”buono” (o non solo per quello), ma perché gli converrebbe così. Lui è il Presidente che le guerre (sulla carta, almeno) le finisce.

Nel frattempo, però, più per caso che per virtù, sembra che si stia trovando una soluzione alternativa. La Russia di Putin, alleato di Assad, e baluardo in difesa del regime di Damasco nel Consiglio di Sicurezza ONU, pare abbia accolto favorevolmente una frase buttata li` dal Segretario di Stato americano, John Kerry, che aveva proposto di fermare l’attacco se la Siria fosse stata disposta a consegnare le proprie armi chimiche alle Nazioni Unite e a firmare la risoluzione internazionale contro l’uso delle stesse. Kerry non pensava che questa proposta sarebbe stata accolta dalla Russia e neppure, tantomeno, da Assad, ma pare che forse le cose stiano diversamente, forse la minaccia dell’attacco americano è credibile e sta portando il regime a rivedere la propria posizione.

Come suggerisce Howard Dean, se la Siria accettasse questa proposta, con la mediazione russa, e ancora con la spada di Damocle di un possibile attacco Americano sulla testa, la crisi siriana (perlomeno quella internazionale, che interessa voi, amici pacifisti, non quella interna che interessa coloro che non vogliono vedere i civili morire nelle guerre civili) terminerebbe. Come terminerebbe? Come si fa a trasferire da un paese di quel tipo armi così pericolose in un contesto simile di guerra civile? Il NYT, ci dice che sarebbe sostanzialmente impossibile. E allora? La risposta arriva dalla teoria dei giochi, con cui abbiamo flirtato fino ad adesso parlando di minacce credibili e non credibili. Se la Siria accettasse, almeno sulla carta per il momento, di consegnare le proprie armi chimiche e aderisse ai trattati internazionali che la vincolano a non usarle, non avrebbe più incentivo a farne uso, pur avendole a disposizione. In caso opposto, infatti, una reazione sarebbe inevitabile e come promotori di un simile intervento, a quel punto, statene certi, non ci sarebbero solo gli Stati Uniti. A garante di un simile accordo, peraltro, ci sarebbe lo stesso Putin (sempre che si capisca a che gioco stia giocando), il quale potrebbe riqualificare in questo modo la sua immagine internazionale, scalfita dalle questioni interne e dal fatto che sarà Presidente della Russia probabilmente a vita.

Mettere in atto una soluzione simile non sarà comunque facile, ma la mia sensazione personale è che Howard Dean abbia ragione e che la cosa si chiuderà così. Senza un voto al Congresso Americano. Senza un intervento militare. Con migliori rapporti diplomatici tra Stati Uniti e Russia. Con una guerra civile che non ha nessuna intenzione di fermarsi e con la conferma che Obama ha fatto di tutto pur di non bombardare Assad. Stiamo a vedere, ovviamente. Sono trattative delicate e se dovessero fallire, un intervento di qualche tipo ci sarà. Ma almeno, dovesse accadere, vi prego: sappiate la storia che c’è  dietro, non giocate con le parole e con gli slogan.

I “pacifisti”, infatti, sembrano vivere in un mondo in cui non esistono gli Assad, i Gheddafi, i Kim-Jong-un, i Fidel Castro e suo fratello Raul, insomma un mondo platonico in cui non esisto “cattivi” e quindi non può esistere guerra. Eppure non è così: gli interventi militari non sono tutti uguali e vanno analizzati uno per uno, fattispecie per fattispecie, specificità per specificità. Vanno commentati informandosi bene, non in maniera superficiale, come siamo soliti commentare gli eventi politici in Italia. Perché se posso accettare la superficialità e la caciara quando si commentano gli articoli di gossip di Maria Teresa Meli, non penso si possa fare lo stesso quando si parla di cose serie. E la guerra è la cosa più seria che ci sia.

Inoltre, da persona di sinistra non mi rassegno a pensare che tutti abbiano diritto a tendere alla libertà e alla democrazia, che nessuno debba essere costretto alle repressioni dei regimi. Non mi illudo che si possa trovare una soluzione immediata e universale agli autoritarismi del mondo, ma quando si superano alcuni limiti in determinate situazioni sono a disagio nel pensare che noi stiamo qui a contarcela su, a discutere su facebook di quanto siano o non siano cattivi gli americani, a mettere bandiere della pace nella foto profilo o sui balconi, ma non stiamo facendo nulla, ma proprio nulla, per trovare una soluzione vera per un popolo che si trova in mezzo ad una sanguinosa, terribile e mortale guerra civile. Quando si presentano delle situazioni in cui un regime sembra essere in difficoltà non mi dispiace pensare che ci sia qualcuno che aiuti quel popolo a dargli una spallata.

La democrazia non si esporta con le bombe. Ma, la gente che muore sotto le bombe o soffocata con il gas, amici cari, non si trova quasi mai in uno stato in cui c’è  democrazia. Forse è il caso di rifletterci.


Tagged: Barack Obama, Bashar al-Assad, Damasco, David Cameron, democrazia, diplomazia, Fidel Castro, Francia, George W. Bush, Gheddafi, guerra, Howard Dean, Iraq, John Kerry, Kim Jong Un, liberta`, Libia, New York times, Onu, Raul Castro, Russia, Siria, Stati Uniti d'America, Vladimir Putin

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