Il “mondo italiano” dell’Alto Adige è di nuovo in apprensione. Responsabile un passaggio contenuto nel disegno di legge provinciale n. 31/34 presentato dalla Giunta provinciale riguardante le assunzioni del personale insegnante. Qualora la norma fosse approvata – la discussione in Consiglio avverrà in gennaio – si prevede che, con decorrenza dall’anno scolastico 2015-2016, “le nuove graduatorie provinciali per l’accesso ai ruoli e per le classi di concorso delle scuole in lingua italiana veng[a]no istituite dopo l’entrata in vigore delle norme relative ai requisiti speciali prescritti per l’insegnamento nelle scuole della provincia di Bolzano”.
“Requisiti speciali” è una formulazione ambigua, tanto che in nessuna parte del disegno di legge viene specificato a cosa ci si riferisca. In base però ad alcune dichiarazioni emesse dai vertici del governo provinciale, l’ambiguità è svaporata così: in futuro tutti i docenti italiani che vorranno insegnare dalle nostre parti dovranno dimostrare di conoscere qualche elemento di tedesco e possedere nozioni di storia locale.
La preoccupazione connessa a questa interpretazione – interpretazione, ripetiamolo, non ancora suffragata da una specificazione ulteriore della norma che si vorrebbe approvare – rivela un duplice nervo scoperto nella comunità italiana. Da un lato la presupposizione che, stabilendo e restringendo le condizioni di accesso all’insegnamento, si voglia deliberatamente impedire l’afflusso di docenti dalle altre province; dall’altro si fa valere la vecchia idea secondo la quale il riconoscimento dei meriti professionali dovrebbe sempre eccedere considerazioni di ordine linguistico o di radicamento territoriale. Un bravo professore di matematica, non ci si stanca di argomentare, deve saper fare soprattutto il suo lavoro, non lo si può limitare chiedendogli d’intendersi di didattica plurilingue o di conoscere i presupposti storici e giuridici dell’autonomia.
Si tratta di preoccupazioni condivisibili? Certo, occorre seguire con attenzione quanto si sta preparando ed è doveroso che i criteri valgano per le scuole di ogni gruppo linguistico e per i rispettivi docenti, ma chiudersi a riccio non pare opportuno. Se cedessimo all’impulso di rifiutare a priori quanto proposto saremmo infatti costretti a disegnare un identikit professionale dei nostri insegnanti privo di prospettive. Possibile che proprio chi ha il compito di formare i cittadini del futuro sia incoraggiato a sentirsi esentato dall’appropriazione degli strumenti linguistici e culturali che lo renderebbero maggiormente consapevole del contesto in cui si troverà ad operare?
Corriere dell’Alto Adige, 17 dicembre 2014