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Ma io non ce la faccio, a consderarla una cosa normale. Va bene che qui nulla e’ normale. Che la vita in missione deforma un po’ tutto. Che siamo tutti un po’ pazzi e ne siamo pure fieri. Che agli umanitari piacciono le personalita’ forti. Che spogliarsi nudi significa andare contro le convenzioni, e a noi le convenzioni non piacciono, altrimenti ce ne staremmo a Milano-in New Jersey-a Limonge a prendere il tram tutte le mattine per andare a lavorare. Che in fondo chissenefrega di cosa e’ normale e cosa non lo e’, l’importante e’ ridere e aggiungere un pizzico d’eccitazione ad una serata altrimenti sempre uguale.
Ma io non voglio riderne, non voglio varcare questa linea. In un posto in cui la contraddizione regna sovrana, io hic et nunc demarco il mio limite. Non e’ accettabile per un capo missione, per un uomo di quasi quarant’anni, fare uno strip-tease in un locale pubblico davanti a sciami di colleghi. Per un uomo intelligentissimo, tra l’altro. Uno di quelli che ti mettono soggezione quando gli parli da quanto e’ acuto, uno di quelli con cui si cerca sempre di stare di pari passo nell’argomentazione per non sfigurare. Quello che interviene sempre per primo alle riunioni OCHA. Che capisce di piu’ di tutti del contesto del Nord Kivu. Quello che si fa portavoce della comunita’ umanitaria di fronte ai vari rappresentanti e diplomatici in visita da Kinshasa e New York, e articola eloquentemente i bisogni e i dilemmi dei nostri interventi sul terreno.
L’intelligenza non protegge, qui. E nemmeno la vita sociale. C’e’ chi lavora troppo, chi festeggia troppo, chi fa troppo di tutti e due perche’ crede di essere immortale. Ci si brucia in fretta, stiamo impazzendo tutti. Impazziamo insieme, lui si spoglia e gli altri applaudono. Io resto aggrappata alla mia sanita’ mentale, e vedo questo triste spettacolo come un’implorazione disperata di attenzione, segno ultimo di un dolore sconfinato, di una solitudine senza fondo. E mi viene da piangere.
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